mercoledì 29 aprile 2009

Incubo del giorno /7

Sono alla presentazione di un libro di Marco Travaglio sull'Inter (la squadra).
L'autore esordisce: "Io ho avuto una mamma. Non posso credere che anche altri l'abbiano avuta. La mia non ce l'aveva. La mia mamma era enorme".
La platea esplode in una fragorosa risata e trascinante applauso.
Io sono perplesso, e così mi sveglio.

martedì 28 aprile 2009

un apologia non totalmente privata di Carver

E.,
come promesso, ecco la mia mail in difesa di Carver. Come promesso, sarò così pessimo da riciclarla sul blog. Non me ne vorrai, spero. Una volta che mi metto d'impegno a scrivere per mezz'ora di qualcosa di serio (che a me sembra serio, per lo meno), cerco di sfruttare il momentum il più possibile. La tua mail con i dubbi su Carver (se a lui manchi qualcosa o manchi a te che non lo stai apprezzando) mi ha fatto piacere, anche se mi sono sentito un po' in colpa: eravamo assieme quando hai comprato le 39 stories, e mi ricordo che ho insistito perchè lo comprassi. Io ne avevo appena riletto qualcuna (ero appena tornato da Grottaglie, dove i miei libri di Carver sono in esilio) e le avevo trovate, come al solito, eccezionali. Però ora che dovrei difendere lo stile e i risultati del signor Carver, sono un pò in imbarazzo. Vedi, in altri casi, anche in altri autori che ti ho stressato perchè leggessi, riesco con una certa facilità a vedere cosa mi piace di loro: riesco anche a vedere cosa di loro non mi piace. Di Bufalino, per esempio (quello di Diceria dell'Untore, che negli altri libri varia un bel pò): il modo in cui accumula e compone le metafore, l'innaturalità dello stile, l'occasionale scarto tra registri altissimi e colloquiali. O, ancora, di Salinger: la capacità di ingarbugliare i periodi, infarcirli di frasi memorabili e poi risolverli, la capacità di tenere dialoghi per decine di pagine. Come ti dicevo, sono anche abbastanza obiettivo su cosa di loro non mi piace, o non mi convince: il cadere di Bufalino ogni tanto in una retorica da romanzo ottocentesco (voluto o no che questo sia), la necessità di Salinger di popolare le sue pagine di esseri eccezionali, l'incapacità a creare racconti forti nello stesso modo partendo da gente più normale della famiglia Glass, ma anche il cadere, di tanto in tanto, in quella stesso tipo di sentimentalismo che i suoi stessi personaggi troverebbero insopportabile, un misticismo un pò ostentato.
Di Carver mi dici che ogni tanto non capisci dove voglia andare a parare, che i suoi racconti finiscono senza finire, che l'assenza di artifici (questo non lo dici, ma diciamo che maltratto un pò le robe che mi hai scritto) sia talmente forzata da sembrare il principale vezzo stilistico. Diciamo che ci hai preso più o meno in tutto, e che in queste caratteristiche c'è quasi (quasi) tutto il perchè Carver mi piace.
[Lascio da parte la questione se il minimalismo di Carver sia un'invenzione sua o del suo primo editor: un pò non me ne frega tanto, in secondo luogo sono per l'ipotesi che Carver abbia imparato a fare quel che ha fatto, e quindi si può discutere dove l'abbia imparato e da chi e come, ma che sia roba sua e soltanto sua non mi sembra facile da mettere in dubbio. Qui in Italia hanno da poco pubblicato l'edizione originale della raccolta "Di cosa parliamo quando parliamo d'amore" e Baricco non ha perso occasione per dire alcune corbellerie]
C'è un libro di Carver dedicato ai "giovani scrittori" (non so se sia una roba pensata da lui o una raccolta postuma di saggi con un titolo figo) che si chiama "Niente trucchi da quattro soldi": ecco, questa è una buona sintesi. I racconti di Carver sembrano finire nel niente perchè Carver cerca (e non sempre ci riesce) di non usare il primo dei trucchi che ogni scrittore di racconti cerca di usare, la rivelazione finale, l'epifania (come diceva la mia prof. d'inglese dei Dubliners di Joyce, rovinandomeli per sempre), la chiusura ad effetto. Sono effettacci, e sono effettacci che quando sono usati bene a me piacciono, ma io non sono Carver. Nei racconti di Carver l'attenzione non può essere tutta spostata alla rivelazione finale. Si perde tutto. LA rivelazione, se c'è, è in tutto il racconto. Ma, e forse è per questo che a me piacciono così tanto, non è detto che ci sia: credo che nei racconti migliori manchi del tutto. Per esempio: Da dove sto chiamando. C'è l'hai sulla raccolta, dacci un'occhiata.
Se c'è una rivelazione in Carver è nella luce. Non so se capita anche a te (forse no, non starei a scrivere questa mail, altrimenti), ma a ogni volta che chiudo un racconto di Carver, a me sembra che mi rimanga impressa sulla retina la luce che predomina nella scena principale del racconto: quella pomeridiana di "Di cosa parliamo quando parliamo d'amore", quella artificiale di quel racconto in cui la scena finale è sul prato davanti casa, e di cui non mi ricordo il titolo, lo sfarfallio della TV in Cattedrale, la luce filtrata dalle foglie di "Da dove sto chiamando", i riflessi della luce sul fiume del primo racconto [cito a memoria, scusa le imprecisioni e i probabili errori].
Poi: ma questa è una fissa tecnica: il modo in cui usa i piani cronologici, il modo in cui si sposta avanti e indietro nel tempo all'interno dei racconti. Quello è eccezionale. Ancora: il fatto che (anche questo non sempre, a volte Carver cede un minimo al grottesco) non usi l'effettaccio di avere personaggi eccezionali. Vonnegut, per esempio, per questo lo infamerebbe: Vonnegut dice che nei romanzi e nei racconti si ha il dovere di mettere gente che dice cose più interessanti di quelle normali. Carver cerca di mettere gente normale, e sentimenti normali: non semplicemente perdenti, che sarebbe nient'altro che un altro trucco: normali. La bellezza dei racconti di Carver sta, così mi sembra, nell'insieme di questi fattori: nella luce, nell'uso del tempo, nella scelta di un'umanità non eccessiva, anzi forse un pò rattrappita, e ancora, se proprio vogliamo dirla tutta: nel modo in cui usa i dialoghi e li alterna alla narrazione e al discorso indiretto, nella naturalezza dei dialoghi stessi. Ma siamo ancora all'esterno della questione, anche se parlando della luce forse mi ci sono avvicinato (e non so se sarò in grado di farlo di più di così): l'insieme dei racconti, il fatto che non vadano da nessuna parte, l'assenza di orpelli, mette in luce sempre qualcosa al centro: ed è diverso mi pare, da racconto a racconto. A volte è consolante, a volte triste. Più spesso, non è possibile definirlo in nessuno di questi due modi. Rimane lì, un nucleo di realtà. Dovrei avere i racconti sottomano per cercare esempi pratici: è la luce, come ti ho detto, ma anche alcune frasi (in sè assolutamente non notevoli), alcuni movimenti (parlo proprio di movimenti spaziali, alcuni gesti) e soprattutto alcuni silenzi dei personaggi. I personaggi che si stringono la mano e si illudono in "Di cosa parliamo quando parliamo d'amore" (torno a questo perchè so che ti è piaciuto, e anche perchè lo ricordo bene), alcune cose che si capisce non si dicono l'un l'altro, il modo in cui continuano a bere. A me rimane di tanto in tanto un'impressione di insopportabile bellezza (anche triste, ma insomma, mi hanno fatto insensibile apposta per poter sopportare tutta questa tristezza), e non posso indicare il punto in cui Carver ha voluto infilarla, perchè, quando la avverto, è ovunque.
Non ti sembra meraviglioso?
La smetto, dato che un pò mi sono perso.
Un bacio,
a presto.

domenica 26 aprile 2009

volontariato comunista


Insomma, in questi giorni sto lavorando anche (in pause, ritagli di tempo, viaggi in metro) alla mia prima opera da pubblicare sotto lo pseudonimo di Cecco Palagnocco. Si tratta di un romanzo epico e politico, realistico e utopico, che vuole inscriversi con lettere infuocate nella corrente della New Italian Epic. Il protagonista, la principale tra le voci narranti, all'inizio della stesura pensavo dovesse avere un tono a metà tra Gramsci e i presentatori di Italia Uno; mi sono reso conto solo in seguito che i Quaderni non mi davano la prosa che mi serviva.
Ho iniziato così a portare con me, e a rileggerlo in metro, e con grandissima noia, il Saggio sulla Liberazione di Marcuse: che va già meglio, o almeno mi ha dato delle categorie fondamentali per riempire di contenuti alcune svolte narrative altrimenti poco credibili.
Mi mancava però qualcosa, e lo sapevo.
Il modello altissimo a cui aspirare era - ne ero conscio fin dall'inizio - il mix di teorie ottocentesche e cultura pop che caratterizza il militante tipo (quello inconsapevole, tramortito dalla vita universitaria e dalle sue enormi possibilità di perdere tempo) di Lotta Comunista.
Il problema è che esistono blog di entusiasti ammiratori di Lotta Comunista (pochini, in realtà), esistono forum che li dileggiano e persino un sito appartenente ai loro più acerrimi nemici, gli Internazionalisti del Bureau Internazionale del Partito Proletario, di cui vedete a corredo di questo post la maglietta (che forse voglio) e uno degli adesivi, popolato chissà perchè da truzzi con le sbarre.
Ma, e questo è strano, e si spiega solo con il rifiuto cosciente di uno dei mezzi dell'asservimento preferito dal capitale, ovvero il worl wide web, non c'è neanche un giovane militante di lotta comunista che tenga un blog in cui discutere le teorie immortali di Arrigo Cervetto e i problemi con la tipa, l'ultima canzone dei radiohead e la necessaria sconfitta del capitalismo a causa delle sue contraddizioni interne. Non mi restava che conoscere un militante vivo, ma dove trovarli? E come farlo senza lasciar loro neanche un mio contatto, in modo da non cadere nell'ossessiva reiterazione dell'invito alle loro magnifiche conferenze?
La fortuna mi è venuta incontro: l'altra mattina prendo, svogliato e assonnato, un volantino all'ingresso del lavoro. Non faccio caso al gruppo che firma la proposta di mobilitazione per il primo maggio. Solo quando sono già alla mia scrivania mi accorgo che è firmato dai giovani di Lotta Comunista: che occasione persa, mi dico, anche se so benissimo che il livello di condivisione a cui aspiro non è ottenibile in una conversazione con un militante impegnato a distribuire volantini. Però poteva essere un primo passo, un modo per conoscerli!
Ma, ripeto, la fortuna era dalla mia: una delle mie colleghe mi fa:
"Ah, hai preso il volantino?"
"Sì ma lo stavo guardando soltanto ora..."
"Eh, quelli sono i colleghi del mio ciccino...."
"Colleghi? Dove lavora, il tuo ragazzo?"
"No no, colleghi perchè anche il mio ragazzo fa volontariato comunista."
"Cosa fa???"
"Volontariato comunista, con Lotta Comunista"

Finora da questa agnizione, a parte il fatto che la mia collega giustamente inscrive l'attività del suo fidanzato nella categoria del volontariato piuttosto che in quella della militanza, ho guadagnato:
1) una copia del giornale lotta comunista di aprile, il cui servizio di prima pagina inizia con la frase "Ancora nel 1985, in un suo articolo sulle contraddizioni..." ("ANCORA"? in che senso? nel senso di "Di nuovo"? nel senso di "Già"? Nel senso di "Persino"? Misteri della prosa leninista, che sto cercando di sciogliere ed assimilare) e che ha però il suo centro ideale in un articolo sul terremoto in Abruzzo e sulle sue conseguenze di breve raggio sulla politica italiana (pagina 4), articolo che però può partire solo dopo una colonna in cui si discute dell'immortale contributo di Engels allo studio della geologia e dell'evoluzione naturale (giuro);
2) un invito da "interno" alla manifestazione alternativa indetta da Lotta Comunista il primo di maggio.
Non so ancora se avrò il coraggio di andarci, ma se ci vado, vi assicuro che ve lo farò sapere.
E comunque, la mia prosa non potrà che migliorare.

Rodriguez "Cold Fact"

In tre anzi quattro parole (meno non ci riesco): ristampa dell'anno (scorso).
In tre righe o giù di lì: così anni settanta che negli anni settanta non se l'è cagato nessuno. Secondo me lo confondevano col rumore di fondo. Ascoltato oggi è invece rinfrescante.
In meno di tre pagine ma in realtà in breve, che dopo un pò mi rompo: "Cold Fact" è un disco del 1970 che all'epoca, negli Stati Uniti, almeno, non si cagò nessuno. Per una curiosa alchimia di culo e casualità, è diventato invece un classico in Australia (tanto che il buon Rodriguez, figlio di immigrati in quel di Detroit e ridotto a suonare in strip- e gay-bar per sbarcare il lunario potè, all'inizio degli anni ottanta, fare un tour negli stadi australiani) e soprattutto in Sudafrica, dove è considerato uno dei classici insieme a Beatles e Black Sabbath (deve essere un posto strano, il SudAfrica). Ma insomma cos'è? Si tratta di pop-folk-rock, una versione più diretta e annacquata di Bob Dylan, o una più parlata, sporca e viscerale di Paul Simon (mmm... questo secondo paragone in realtà non regge molto): testi diretti su droga, politica, sesso e, come si dice tra noi persone di una certa cultura, relazioni interpersonali (esemplare il verso: "My statue's got a concrete heart/ But you're the coldest bitch I know" da Only Good for Conversation), ritornelli diretti e semplicissimi e occasionali vezzi anni 70 (funk o psichedelici, a seconda del bisogno). All'epoca temo sembrasse così scontato che nessuno poteva avere voglia di ascoltarlo (tant'è che ha avuto successo in quei posti che non erano saturati da quelle sonorità), ma è invecchiato benissimo, e riempie stanze, serate e orecchie.
(Molto più degno di essere ascoltato di molta della roba uscita negli ultimi tempi, per lo meno)

Rodriguez - Rich Folks Hoax.mp3

Azita "Life on The Fly"


in tre parole (o meno): meglio dell'ultimo
in tre righe (o meno): una cantantessa capace di non essere "carina": violenta, sofisticata, abrasiva e dissonante. E con una passione evidente per gli assoli storti e anche brutti, ma con un che dei King Crimson anni '80.
in tre pagine (ma credetemi, saranno molte di meno): Azita (nome completo: Azita Youssefi, di origini iraniane) è stata la cantante e bassista delle Scissor Girls, un gruppo no-wave dei primi anni novanta (traduzione: casino). "Life on the Fly" (2004) è il suo terzo disco solista, che mi sono procurato e ascoltato per sbaglio mentre cercavo l'ultimo "How will you?" (2009). L'ultimo disco, va detto, è molto elegante, ma ancora non sono riuscito ad ascoltare le prime cinque canzoni per intero, perchè oltre ad essere elegante e raffinato è anche piuttosto moscietto. Life on The Fly invece è in heavy rotation: è un disco pop, nella struttura (canzoni di quattro-cinque minuti basate sul piano, strofa e ritornello, sempre e sempre, più o meno, assolo tra il secondo ritornello e la terza strofa), ma votato alla dissonanza, sia nelle melodie vocali che in quelle di piano, che negli assoli, a volte di rara bruttezza. Di rara bruttezza ad un primo ascolto, per lo meno, perchè dal secondo ascolto in poi, la voce di Azita che passa da registri bassi alla Nico a note altissime senza nessun preavviso, i ritornelli meno piacevoli delle strofe e in cui sembra che le parole siano state schiacciate a forza, senza nessun rispetto per la metrica, gli assoli anni ottanta se gli anni ottanta fossero stati davvero gli anni di Tom Waits e Nick Cave (come a volte mi capita di sostenere) e non quelli dei Duran Duran e degli Ah-Ah, si ficcano in testa e risulta progressivamente meno spiacevoli anche se, e va detto a loro onore, non risultano mai completamente normali. Molto bello: cercherò i dischi più vecchi ora, perchè evidentemente la signora Azita, invecchiando, è peggiorata. Cercatela anche voi, ma intanto vi mollo con la prima canzone del penultimo disco:

Azita - Wasn't in the Bargain.mp3

chi è sto sfigato?

(due minuti fa)
Io "che è sta cosa trash alla TV?"
Lei: "Le selezioni di amici"
Io: "...."
Io: "Dai... poverino questo qua, che figura sta facendo. Non ha speranze, sto sfigato."
Lei: "veramente è quello che ha vinto Sanremo"
Io: "vuoi dire che è il risultato a cui aspirare?"
Lei: "purtroppo"
Io: "Ah."

(come gli alcolisti scozzesi fanno con le birre, io oggi cercherò di postare tutta la roba arretrata. ci rivediamo tra poco)

domenica 19 aprile 2009

Il giardino dei lucchetti, by A. Checov


Ieri sono stato a Cremona. A Cremona c'era il secondo festival del racconto: nello specifico ieri c'era Alessandro Piperno che leggeva male qualcosa. Comunque, non è di questo che volevo parlare. L'anno scorso a Cremona c'era stato il primo festival del racconto e anche un festival di poesia (a cui, per fortuna, non avevano invitato Alda Merini, basta quasi soltanto questo ad assicurarsi la mia stima). Quest'anno il festival della poesia non c'è. E' stato mangiato (i fondi, per lo meno, lo sono stati), dal festival del racconto. E' che il primo era andato troppo bene. Era pieno di scelte azzeccate e di qualità. Una delle scelte era così azzeccata e di qualità che quando il mio amico me l'ha riferita, faticavo a crederci. Mi sono costretto ad andare a cercare i programmi del Festival del Racconto 2008 per crederci davvero.
Da allora, nella mia testa, c'è una vocina che dice "Aò, c'è stava Step, sulla prospettiva Nievskji, che un giorno faceva l'impennate e proprio qua parte la più classica delle storie d'amore degli adolescenti russi...". And so on. Se qualcuno ha documenti (audio e video) dell'evento è pregato di farsi avanti.

Gipi - La Mia Vita Disegnata Male


in meno di tre parole: bello, bello, bello.

in meno di tre righe: al Bondi, che era con me quando l'ho comprato, dicevo: "guarda come disegna male bene!"e poi "senti come scrive bene e basta!".

in meno di tre pagine (e meno male): era da un pò che lo volevo leggere, e stupido me che ho aspettato così a lungo. Bellissimo, disegnato benissimo (lo ripeto sempre: a disegnare bene sono bravi in tanti; a disegnare male in quel modo là: quasi nessuno), scritto forse anche meglio: Gipi racconta un bel pò di cazzi suoi, senza alcun pudore (dice che "non gliel'hanno fatto"), dalla malattia al pisello (fil rouge fittizio dell'intero racconto), alla droga, agli amici, ai traumi infantili, e tiene in secondo piano soltanto le sue storie d'amore, soprattutto quella che si intuisce in corso. (se non si considerano storie d'amore quelle con gli amici, e soprattutto quella con Andrea, che chiude il volume). A interrompere la narrazione le tavole sui pirati, che sono quelle disegnate "meglio" e, dato che sono fiction, possono essere a colori (solo a me, però, fanno venire in mente gli inserti marinari in Watchmen? lo so che non c'entra niente, però....), e che sono le meno necessarie di tutte, anche se preparano l'epifania delle ultime tavole (epifania che sì, insomma, un pò mi ha lasciato freddo ma... insomma è un mio problema con le rivelazioni. Per me le rivelazioni non sono mai momentanee, sono costanti. Prima o poi mi mi spiego, appena mi capisco).
L'unica cosa che manca a Gipi rispetto a un Pazienza (è l'unico punto di riferimento possibile, mi sembra, ed è un punto di riferimento necessario, se si fa fumetto in Italia) è forse l'abilità di costruire tavole dinamiche: le sue sono molto più classiche (penso ad alcune tavole di Pompeo, per intenderci, dal disegno apparentemente elementare, ma piene di prospettive e movimenti sghembi: le classiche tavole su cui io mi rompo la testa cercando di capire come ha fatto a immaginarsi non quella storia - e vabbè, a quello ci si può arrivare - nè quell'immagine - idem, anzi a volte è anche più facile - ma quell'inquadratura, quel taglio lì, e a farlo sembrare così naturale). Le tavole di Gipi sanno molto di fumetto classico e a volte sembrano degli script per un forma di cinema ideale (nei campi lunghi soprattutto): quelle di Pazienza erano tavole oniriche, con un linguaggio e regole loro proprie. Questa è l'unica critica possibile a Gipi? Non è neanche una critica: se l'unica cosa "negativa" che mi viene in mente di dire di un fumettista è che forse Pazienza era un filino più avanti, allora si entra in una categoria differente: gli autori che si studiano, si analizzano e si amano vignetta per vignetta, cercando di capire come fanno. Al limite, cercando di copiarli un pò.

venerdì 17 aprile 2009

un Velasquez, sembra.


l'augusto genitore con bestiola (di nome Diana, ovviamente: si è mai sentito di cane da caccia femmine con un nome differente da questo?), il giorno di pasqua.

mercoledì 15 aprile 2009

me-nomazione

fino a qualche giorno fa pensavo che il sommo scrittore Tommaso Pincio fosse solo uno parecchio sfigato nato con il nome sbagliato.
poi ho scoperto che invece è un nome d'arte, e che se lo è scelto.
è da allora che penso a quale nome d'arte assumere, e se un modo c'è per farlo, allora deve essere proprio nel solco del magistero Pinciano.
sono dunque indeciso tra i seguenti noms de plume:
  • Filippo Rotto
  • Paolo Austero
  • Silvio Platto
  • Sigismondo Frodo
  • Cecco Palaniucco
(e il mio preferito per adesso è l'ultimo)

update: avevo dimenticato un possibile pseudonimo, uno che potrebbe essere il mio preferito, comunque:
  • Carlo Marzo

religione


(sempre vicino alla chiesa madre, a grottaglie)

educazione


(vicinissimo alla chiesa madre, a Grottaglie)

indecisione


(vicino casa mia, nella campagna tra Grottaglie e Villa Castelli)

lunedì 13 aprile 2009

reclusione


(come io sia riuscito a sfuggire, è un mistero)

(sulla strada per il santuario della Madonna della Mutata, ovviamente a Grottaglie)

venerdì 10 aprile 2009

lo sa solo nostro signore



(Non mi è proprio sembrato il caso di occuparmi del terremoto. Per rispetto e perchè ovviamente su internet non si è parlato quasi d'altro. Però, in questo video ci sono due grandi verità: la prima è che è sempre colpa dei cattolici* - si potrebbe farne una regola generale? - la seconda è contenuta nell'ultima frase del sismologo)

*(ogni tanto ho ritorni di intolleranza, per fortuna)

snotatura notturna

Insomma. A Milano ho in ballo un lavoro figo e uno che potrebbe essere divertente (e occuparmi solo le serate), ed entrambi pretendono d'esser lavori capaci di lasciarmi il tempo di averne, parallelamente, un altro a tempo pieno. Intanto quello a tempo pieno che ho trovato è sorprendentemente simile a quello che facevo prima, ma almeno so di saperlo fare. L'editore mi ha ribadito che mi pubblica, e il mio lavoro su Cardano procede - terribilmente a rilento, ma va, almeno nella mia testa. Ho due o tre cose grosse da scrivere e almeno cinque o sei stupide che mi ronzano per la testa e che metto giù disordinatamente, quando capita e dove capita. Il quaderno che uso in questo periodo è persino più strano della media dei quaderni che uso di solito: riempio pagine di elenchi che non vanno da nessuna parte, e mi ostino a considerarli materiali. Stasera mentre prendevo un caffè alla macchinetta in una fermata della linea verde della metropolitana, un tizio ha attaccato discorso: sosteneva di avere quarantacinque anni (portati male, nel caso), di essere un magazziniere IBM (prima che gli dicessi di averci lavorato, dunque è probabilmente vero), di essere stato campione di pattinaggio da giovane. Aveva i capelli tirati all'indietro, lunghi più del necessario (una specie di caschetto corto, ma comunque più lunghi di quanto l'avrebbe tenuto nei limiti della non-ridicolaggine), e sosteneva di avere una fidanzata a Romolo (MM2), una a Monza, una a Bergamo, una Ucraina e una in Moldavia. Sosteneva anche di aver toccato le palle a due trans, ma sempre per sbaglio. Mi ha detto che sembravo un tipo sveglio: non so se esserne fiero. Comunque, siamo diventati grandi amici: nelle sei fermate di metro fatte assieme mi ha chiarito le sue categorie estetiche indicandomi le femmine che lui considerava brutte apostrofandole con la frase "guarda queste! se erano pecore erano morte di fame!". Devo dire che non l'ho capita, ma mi ha fatto ridere lo stesso.
Domani vado a Grottaglie: non credo che scriverò nei tre-quattro giorni che starò via da milano (di cui due in viaggio, comunque.... ma chi me la fa fare? la genitrice malata, accidenti). Ma spero di fare molte foto e magari finire Achab 13, che è ammezzato da troppo tempo.
Per il resto, in questi giorni credo nel valore della stonatura, e vi lascio con la canzone in cui Will Oldham, aka Bonnie "Prince" Billy, aka Palace Brother (o Palace Music, in questo caso), stona di più. Va da sè, questa canzone è bellissima. (e la potete pure scaricare, toh.)

Palace Music - Cat's Blues.mp3

(Da Palace Music "Viva Last Blues", 1995)

martedì 7 aprile 2009

Matt Jones, Elvis Perkins in Dearland

Da domani mi rimetto a scrivere, ma per ora mi premeva segnalarvi che, nonostante i nuovi dischi di Bonnie Prince Billy e Decemberists, e nonostante alcuni recuperi fenomenali - rientrare in possesso dei propri cd - o almeno: di parte di essi - da grandi soddisfazioni -, la nuove uscite che sto ascoltando di più sono "Shampoo" dal nuovo progetto di Elvis Perkins (il figliolo di Norman Bates, siddunque) e alcune canzoni dal disco d'esordio di uno sconosciuto cantante/chitarrista amm'ricano, Matt Jones. Qui di seguito, se volete, potete scaricare il suo pezzo che per ora mi piace di più, Jugulars, Bones, and Blisters (gran titolo, tra l'altro).

Matt Jones - Jugulars, Bones, and Blisters

Di Elvis Perkins invece vi beccate il video della golden session:

venerdì 3 aprile 2009

The Decemberists "The Hazards of Love"


Colin Meloy (cantante, chitarrista e compositore dei Decemberists) è un nerd. Non un nerd di quelli fissati con Star Wars, però, ma uno strano tipo di nerd fissato con Stevenson, isole del tesoro, sciabole, pirati, fanciulle rapite e vendette che occupano una vita intera. A Colin Meloy, oltretutto, piace raccontare; "The Hazards of Love", l'ultimo disco dei Decemberists, è nato per dare sfogo a questo bisogno di raccontare usando la forma più tamarra possibile: il MUSICAL. Per fortuna (o più probabilmente: per mancanza di soldi) il progetto di farne un musical vero e proprio è naufragato (o almeno: Colin Meloy userebbe questa metafora), e ci si è dovuti accontentare di un disco che, benchè abbia molti dei pregi dei dischi dei Decemberists (un ottimo indie folk, verbosissimo e colto, ma anche autoironico e mai depresso, assoluta rarità nel campo), ha anche parecchi dei difetti dei musical: i duetti, innanzitutto, ma anche alcune parti che -se non ci fosse stata una storia dietro- in un qualsiasi altro disco sarebbero state tagliate senza pietà, i temi ricorrenti.... nonchè una certa pomposità di fondo, meno fastidiosa quando vira sull'hard rock, molto di più in tutti gli altri momenti.
Insomma: si fa ascoltare, e con piacere, ma ogni tanto fornisce quell'inconfondibile brivido che viene dall'ascoltare o vedere qualcosa e vergognarsi un pò per chi l'ha scritta o realizzata, perchè non capisci come gli sia potuto venire in mente (e come mai nessuno gliel'abbia impedito).

(in video, il singolo, che invece è un classico dei decemberists, senza duetti e cavolate: le immagini a corredo sono però, come al solito, apocrife)

mercoledì 1 aprile 2009