lunedì 24 dicembre 2007

backside to the future /4: x-mas edition

Ricordo distintamente l'ingresso della birra nella vita della Comitiva del Gabbiano.
Era la notte di Natale, festeggiavamo a casa di De Leonardis (aka De Murtaccis), e per la prima volta un carico di birra Raffo ci rese tutti un pò brilli. Avevamo 16 anni, quindi non eravamo granché precoci.

Io e Tiziano tornammo a piedi verso il garage in cui tenevo il mio Sì Piaggio (aka "il Gigarino"), con l'intenzione di cazzeggiare un pò in giro.
Quell'anno l'amministrazione di Grottaglie aveva avuto pretese di artisticità: sul corso principale alcuni grossi tubi di cemento dovevano rappresentare le grotte e dei cosi di rame attorcigliati dovevano essere i personaggi del presepe: sotto ognuno di essi, per evitare fraintendimenti, una targhetta diceva: "San Giuseppe", "Madonna", "Pastorello", ecc.
Io mi avvicinai a San Giuseppe e lo sfiorai con un dito. San Giuseppe si accasciò al suolo senza un lamento. Feci per rimetterlo a posto, ma lui non volle darmi retta. Ridevamo, intanto. Una voce bassa e senza corpo si materializzò all'improvviso: "Pezzo di merda!". Il divino, pensai. "Ti faccio un culo così!". Tiziano capì prima di me che si trattava del custode. "Esagerato!" urlò, e ce ne andammo ridendo, mentre la voce ancora disincarnata continuava a insultarmi.
Il sì della piaggio, lo dico per chi non ne ha mai visto uno, era un mezzo progettato per circolare di giorno e in città: il faro aveva due posizioni, e quella spacciata per "abbaglianti" illuminava la strada per un massimo di cinque metri.
Io e Tiziano si decise quindi di andare a fare colazione a Monteiasi, a otto km da Grottaglie. Erano le tre e mezza di notte, era scesa una nebbia che rendeva impossibile vedere a più di due metri e la cosa ci sembrava stupida anche se eravamo ubriachi. Però la facemmo, ridendo tutto il tempo perché dovevamo fare la strada a memoria., ma era una strada di campagna, e non c'era nessuno, e a parte cadere nella fogna a cielo aperto che costeggiava la strada, non poteva capitarci niente di male.
A Monteiasi di notevole c'erano solo le due croci al neon a illuminare le due chiese principali, una blu, più gotica, e una verde che sembrava rubata a una farmacia. Un unico bar aperto, di fronte a cui ci fermammo, con un barista assonnato e un omino che quella notte si era scontrato davvero con troppi bicchieri.
"Magari torniamo a Grottaglie", dissi a Tiziano.
Non smettemo di ridere mai neanche al ritorno.
Forse mi sbaglio, ma quello fu un Natale perfetto.
Auguri.

venerdì 21 dicembre 2007

J. K. Rowlings "Harry Potter e i doni della morte"

*
Con l'ultimo capitolo della saga di Harry Potter, la Rowling si risolleva solo parzialmente dal nulla narrativo e stilistico in cui era caduta con il "Principe Mezzosangue". Ci riesce innanzitutto perché per la prima volta non ambienta la storia ad Hogwarts, e l'assenza del calendario scolastico toglie molta della pesantezza che caratterizzava gli ultimi due episodi. Inoltre, riesce a riprendere alcuni degli indizi lasciati nel corso dei precedenti volumi in maniera abbastanza convincente (la psicologia di Snape, unico personaggio "adulto" dell'intera saga, ma anche altri particolari, come l'origine della proibizione di nominare Voldemort), e cerca di spiegare i punti oscuri lasciati indietro. Il vero problema della Rowling è però che non riesce mai ad evocare ciò di cui parla, nè a condurre il lettore (e nemmeno i suoi personaggi, a dire il vero) a intuire il disegno complessivo, il mondo e le storie che vorrebbe raccontare: la Rowling è costretta così ad illustrare tutto questo attraverso conversazioni estenuanti, o attraverso altri medium (gli articoli di giornale, il libro di fiabe che Dumbledore regala ad Hermione, etc.). Si tratta di una facilitazione al lettore pigro che rende le idee di fondo del libro (i doni della morte, l'ultimo horcrux di Voldemort, la differenza tra Harry e lo stesso Voldemort) simili a pezze messe lì per tappare i buchi della storia, che riduce gli snodi narrativi a botte di culo (tutta la ricerca e distruzione degli Horcruxes, soprattutto nell'episodio dei Gringott Vauls) e che toglie qualsiasi fascino ai flashback: l'esempio principe è l'amicizia tra il giovane Dumbledore e il mago Crucco, che non riesce neanche ad avere il pathos dell'amicizia adolescenziale, figuriamoci di quella maledetta o omoerotica.
Si salva la scena ambientata a casa dei Malfoy, ma la chiusura cristologica (anche se la pietà composta da Hagrid che fa la Madonna e Harry che fa il Cristo a dire il vero potrebbe essere considerata una trovata divertente) è pessima, così come la conversazione onirica tra Harry - che continua imperterrito a non capire un cazzo come nel corso di tutta la seria - e Dumbledore.
In pratica, la Rowling riesce a dissipare il patrimonio di simpatia creato dai suoi primi quattro libri (non capolavori, ma piacevoli sì, e anche intelligenti) con gli ultimi due (il quinto è già brutto, ma si salva, nel mio cuore, perché ce la fa ancora almeno ad essere divertente), non riuscendo a dire niente di più sui suoi personaggi di quanto non avesse fatto con i primi, non riuscendo nè a complicarli nè a farli crescere sul serio, semmai irrigindendoli nel loro clichè, e oltretutto creando per loro una storia e un universo farraginoso in cui muoversi.
L'unica speranza per leggere un Harry Potter bello credo sia rimasta la fanfiction, ma anche lì, a scavare per bene ci vuole tempo e la fine della saga reale mi ha fatto davvero passare qualsiasi tipo di voglia.

*(Il libro l'ho letto in inglese a settembre, ma vedere le locandine in giro in questi giorni mi ha fatto venire voglia di scriverci su, anche pensando a quanta gente lo comprerà, e a quanti ne rimarrano profondamente delusi....)

giovedì 20 dicembre 2007

Nelle orecchie, sotto Natale.

In questo dicembre in cui sto ascoltando molta musica (fissare il pc tentando di scrivere ha i suoi pregi), due dischi hanno preteso la mia attenzione più spesso di altri, e si sono fatti canticchiare nelle occasioni più sconvenienti (ieri al pranzo di natale dell'Istituto me ne sono uscito canticchiando "E lei venne!" ).
Il primo è quello di Elvis Perkins (forse l'unico cantante sfigato quanto E degli Eels), "Ash Wednesday": canzone americana classica che non ha paura di somigliare a Dylan e Neil Young, ma più simile, per la voce di Perkins e per certe progressioni nelle canzoni, per certi crescendo, alle cose migliori dei Decemberists.
Insomma, niente di che, forse, ma artigianato di altissima qualità, di quello che riscalda il cuore, e con testi che man mano che procedono gli ascolti, mi sembrano addirittura belli.
Il secondo è un disco italiano, de "Il teatro degli orrori" (il bellissimo titolo del disco è Dell'Impero delle tenebre): che è musicalmente un buffo e a volte mal riuscito ibrido tra i Jesus Lizard, il rock alla One Dimensional Man (da cui provengono alcuni dei componenti) e la canzone italiana. Tra l'altro, non ho capito se il gruppo casca nel pop italiano di sua spontanea volontà o se ci scivola inavvertitamente di tanto in tanto: io comunque trovo questi slittamenti la cosa migliore del disco, capaci di riabilitare passaggi non convincenti o noiosi. Lo stesso vale per i testi, che esibiscono a volte ingenuità disarmanti, e che allo stesso modo, magari subito dopo, imbroccano la frase rivelatrice e musicale (quella da canticchiare nel momento sbagliato, per intenderci). "E lei venne!" e "Il turbamento della gelosia" (cosa c'è di più pop italiano di quest'ultimo titolo?) sono gli esempi migliori in questo senso, e se avete abbastanza coraggio, potete anche ascoltarle sul loro myspace (e sto facendo violenza a molte mie convinzioni per consigliare di visitare quel luogo orribile).

martedì 18 dicembre 2007

reclame


Un mio caro amico, Davide Fanigliulo, ha pubblicato questo libro su Lulu, e ci tiene anche un blog su.
Io e lui siamo filosoficamente e stilisticamente agli antipodi, ma nonostante questo ci ho trovato cose belle e interessanti. Se vi va, fateci un giro. (O magari comprategli il libro)

lunedì 17 dicembre 2007

Paranoid Park (Gus Van Sant, 2007)


Un paio d'anni fa ho fatto l'incubo forse peggiore della mia vita.
In pratica ho sognato che nella vita reale, in un periodo ben preciso, avevo causato la morte di qualcuno: non intenzionalmente, certo, ma colpevolmente sì. Siccome nessuno se n'era accorto, io avevo fatto finta di niente prima di tutto con il mondo e poi con me stesso, rimuovendo, dandomi giustificazioni e scusanti (poteva capitare a chiunque, etc.), riuscendo infine a farmelo passare totalmente dalla mente. Il sogno era il ricordo che riemergeva nonostante la rimozione forzata, e mi costringeva a fare i conti con quel che avevo fatto. Ora: la cosa terribile è che io mi sono svegliato convinto che il sogno fosse davvero un ricordo che riaffiorava, e l'impressione me la sono tolta di dosso solo dopo un paio di settimane in cui ho preso agende, calendari, taccuini e ho analizzato i miei due anni di vita precedenti alla ricerca di un buco in cui quella cosa poteva essere successa sul serio. Forse è stata l'unica volta che sono stato vicino alla psicosi (e tutto per colpa di un panino coi wurstel e crauti, oltretutto).
Il film di Gus Van Sant mi ha colpito innanzitutto perché la situazione del ragazzino è esattamente la stessa: e la sua risposta, così apparentemente indifferente, e i metodi che usa per schiacciare il ricordo e il senso di colpa sono gli stessi di cui io mi accusavo nel mio sogno, e che probabilmente sono quelli a cui farei ricorso in una situazione del genere. Il film di Van Sant ha anche altri pregi, primo di tutto una qualità delle inquadrature e della fotografia eccezionale, dialoghi sempre credibili (che è la cosa più difficile) e personaggi perfettamente delineati e non scontati anche se hanno uno spazio di pochi minuti nella narrazione. E vivaddio non ha una morale, anche se i critici gliela troveranno.
E la colonna sonora poi, è magnifica: soprattutto negli abbinamenti che Van Sant crea con le scene di skating al rallentatore che attraversano tutto il fim, interrompendo il racconto.

domenica 16 dicembre 2007

Maria Luisa

(L'altra sera, proprio mentre l'otite prendeva possesso delle mie orecchie e mi rendeva simpatico e partecipativo come una statua di sale che si indica l'orecchio, un amico di un mio amico raccontava questa cosa che gli era appena successa in treno, e che lì per lì è stata l'unica capace di farmi ridere davvero in quella serata altrimenti dolorosissima)

Scena: interno notte, scompartimento a sei posti di un euro city. Seduto nello scompartimento un ragazzo che legge. Avrà 26 o 27 anni, capelli lunghi quanto può averli un bravo ragazzo, e da bravo ragazzo è vestito: jeans scuri buoni, clarks, maglione Ralph Lauren.
Entra una signora: ha perlomeno 60 anni, ma si può anche dire che li porta bene. C'è però qualcosa di stonato nel suo aspetto: sarà l'eleganza un pò troppo aggressiva, la scollatura francamente evitabile, o i capelli biondi permanentati come neanche negli anni 80; c'è comunque qualcosa che fa inarcare il sopracciglio al ragazzo seduto.
Anche la signora si mette a leggere. Dopo un pò però rompe il ghiaccio e chiede al ragazzo cosa faccia nella vita. Sentita la risposta (un dottorato di ricerca in lettere), si esalta e inizia a raccontare che anche lei è iscritta all'università, che è fuori corso di dieci anni (sic) e che le hanno bocciato la tesi perché lei voleva scriverne una meno accademica e questo al suo relatore non piace. Insomma: la vecchia attacca un bottone di venti minuti in cui racconta del Cristo nella sua tesi al ragazzo, che dal canto suo spera solo di poter rimettersi a leggere al più presto.
Finalmente la signora si cheta e si rimette a leggere anche lei.
Dopo una mezz'oretta, ha finalmente luogo questa conversazione:

Signora (all'improvviso): Scusa... posso farti una sega?
Giovine (tra sè) Cosa? avrò capito male, avrò detto "sera". (rivolto alla signora) Non ho capito, mi scusi.
Signora: ti posso fare una sega?
Giovine (imbarazzato): ma... in che senso?
Signora: posso masturbarti?
Giovine (ancora più imbarazzato, dice la prima cosa che gli viene in mente): ma... ora sto leggendo, non mi sembra il caso.
Signora: va bene, allora quando vuoi avvisami tu.

I quaranta minuti di viaggio passano con il giovine immerso nel suo libro che non osa guardare la vecchia, eppure sento il suo sguardo su di sè, interrogativo, e teme che lei glielo richieda, da un momento all'altro. finalmente il viaggio del giovine finisce. Mentre si mette il cappotto la signora gli si avvicina e gli tende la mano. Lui ha un fremito, ma gliela stringe:

Signora: Maria Luisa, piacere.

sabato 15 dicembre 2007

jella!


non me ne voglia, il professor Gualdoni (che neanche so chi sia), ma questo cartello, affisso per le strade di milano, mi ha fatto troppo ridere. (ho controllato: è un insigne accademico, quindi la diceria è simile a quella che circola intorno ad altri "innominabili" dell'università italiana).

memento estivo


la foto l'ho fatta quest'estate, da qualche parte sulla costa salentina, anche se ora non ce la faccio a ricordare dove (scusatemi ma ho il raffreddore, l'influenza e l'otite, sono troppo impegnato a cercare una quarta patologia per vincere il grande slam), ma il suo significato è utile soprattutto nel gelido inverno. Dato che non si legge perfettamente, trascrivo l'immortale massima:
"Allu scquaiare della nive essene i strunzi"
(Non c'è bisogno di traduzione, vero? Mi piace soprattutto l'utilizzo di "i" come articolo che regge il sostantivo plurale "strunzi".)

giovedì 13 dicembre 2007

Mai più senza!

Recupero il titolo di una storica rubica di cuore per proporvi un'iniziativa che la mia anima pop-catto-trash trova irresistibile: i santini (e relative preghiere) sul tuo cellulare, per tenerlo lontano dal peccato. Secondo me neutralizzano anche le onde elettromagnetiche.
Quelli di santiprotettori probabilmente sono dei geni.

martedì 11 dicembre 2007

bilocazione



come padre Pio, l'autore di queste due scritte agisce in più luoghi.
La prima si trova a Pisa, davanti alle poste; la seconda è nella stazione di Santa Margherita Ligure.
Sul senso delle due scritte non riesco a raccapezzarmi: lo stile è quello delle "Cartoline più belle del Mondo" del Sardelli, ma i testi (soprattutto nella scritta ligure) dimostrano o una psicosi fortissima o motivazioni esterne ai testi, inaccessibili al critico sprovveduto.
Se l'autore riconosce le sue opere, sono gradite delucidazioni.

giovedì 6 dicembre 2007

Across The Universe


Ogni cosa che utilizzi una canzone dei Beatles o di Fabrizio De André ottiene da me, a priori, una valutazione superiore a quella che meriterebbe. Ricordo una puntata di DO RE CIAK GULP di qualche hanno fa in cui Mollica come al solito parlava bene di CHIUNQUE e poi presentava un tale (sconosciuto e tale rimasto) millantandolo come il cantautore delle prossime generazioni. Il bellimbusto ebbe la decenza di utilizzare i 25 secondi a lui concessi suonando un pezzo di "Fiume Sand Creek" invece di una delle sue immortali composizioni. La scelta della canzone mi fece ipso facto cambiare la mia idea su di lui da "è un cretino raccomandato" a "è un cretino raccomandato ma almeno ha gusto".
Tutto questo per dire che se sono uscito dal cinema, dopo aver visto "Across the Universe", che contiene ed è costruito su 33 canzoni dei Beatles pensando "Madonna che film squallido", devo aver visto un film davvero brutto.
Si salvano numero 2 invenzioni (le fragole inchiodate e la visita di leva). Il resto non solo è kitsch, è ammico finto figo a ragazzi di 15 anni che hanno appena scoperto che sono esistiti gli anni '60: ecco dunque lo pseudo Jimi Hendrix, la pseudo Janis Joplin, lo pseudo Rooftop Concert. Inoltre: durante la pausa grottagliese ho letto Hearts in Atlantis di Stephen King, che non è De Lillo, ok, ma sul vietnam e sugli anni '60 dice cose immensamente più profonde: non ho potuto fare a meno di confrontare questi due prodotti della cultura popolare, e Across the Universe fa una figuraccia. Insomma, secondo la definizione di Olivia: è il passo successivo a High School Musical.
Infine: sono convinto che un essere umano in buona salute possa sopportare una dose ben definita di romanticismo (diciamo quello contenuto nei primi 3 minuti di Love Story): Across the Universe supera abbondantemente tale soglia.

(e io che speravo che la protagonista femminile morisse in una carica della polizia!)

mercoledì 5 dicembre 2007

lunedì 3 dicembre 2007

Papa Benedetto XVI, "Spe Salvi", enciclica. Una recensione.

Per finire: La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. (Th. W. Adorno, Minima Moralia).

La nuova enciclica di Ratzinger sfrutta appieno la distanza che c'è tra il suo pubblico dichiarato (vescovi, presbiteri, diaconi e fedeli laici) e quello reale, che sono tutti gli altri: gli incerti, i disinteressati, gli agnostici, gli atei. Ratzinger sfrutta questa distanza per togliere dal novero dell'opinabile quello che è il centro del suo discorso, quello che nessun non credente potrebbe mai accettare se davvero fosse al centro della discussione; quel paradosso cioè che Ratzinger arriva a citare direttamente e che ricorda il credo quia absurdum, quello della "fede (che) ci dà la certezza". L'equivalenza tra la fede del cristiano e la certezza della vita ultraterrena, della redenzione della vita di ognuno e di tutti i dolori del mondo grazie alla rivelazione evangelica (da notare che le fonti utilizzate da ratzinger sono quasi totalmente neotestamentarie) diventa il centro non discutibile attorno a cui l'enciclica di Ratzinger si dispone, e attorno al quale vengono disposte le critiche a Marx e all'illuminismo che così tanto hanno sconvolto i laici-laici. La petizione di principio ratzingeriana è che il mondo non possa avere un senso che sia interno a se stesso, e che tale senso vada immancabilmente ricercato in qualcosa di esterno e superiore, qualcosa capace di risanare, nello sguardo che si volge indietro, tutto il male avvenuto. Il pensiero scientifico, da Bacone in poi, ha percepito l'insufficienza della risposta della chiesa al problema del male e del senso, e ha cercato un'azione sul mondo che dipendesse soltanto dall'uomo e non da una incontrollabile fiducia nella rivelazione. Ratzinger invece crede nel valore della fede come prova (è interessante il passo in cui il papa critica filologicamente la lettura luterana della parola hypostasis, non fosse altro perchè proprio in quel passo esce allo scoperto il Ratzinger più accademico), e non è disposto ad accettare alcuna risposta che sia, per sua stessa natura, parziale. Tale infatti è la risposta della scienza, che è sempre idealmente rivolta all'azione sul mondo futuro, e mai su quello passato, che non può far nulla per redimere. Per Ratzinger la scienza allarga la potenza dell'uomo, ma non influisce sulla sua libertà che, nel continuo dialogo con i testi di sant'Agostino, rimane sempre libertà di scegliere anche il male. Ecco dunque che il convitato di pietra, praticamente mai citato nell'enciclica, viene allo scoperto: la naturale tendenza dell'uomo al male, il suo essere macchiato - per chi crede - dal peccato originale, condizione di cui la morte è liberazione solo se si crede in una liberazione ulteriore, in una giustizia successiva e, più importante ancora, l'impossibilità di stabilire, su base umana, una morale che abbia la pretesa di essere immutabile, men che meno di essere scientifica. Ratzinger dice - e in questo non si può che consentire con lui - che ogni generazione, ma in realtà ogni singolo uomo, deve imparare ogni volta cosa significhi essere umani. Proprio per questo in alcune delle pagine dell'enciclica si respira il Machiavelli dei Discorsi, quello che ragiona sul ruolo fondamentale della religione nella vita degli stati. Ratzinger sviluppa un discorso esattamente sovrapponibile a quello di Machiavelli, con l'unica ovvia differenza che, se per Machiavelli una religione vale l'altra (e anzi quella pagana è più utile alla grandezza degli stati), per Ratzinger l'unica religione non può che essere quella fondata sulla speranza "vera" della rivelazione. Una speranza, va sottolineato, che si rivela essere speranza eminentemente antirivoluzionaria: da buon agostiniano, Ratzinger sgombra subito il campo da qualsiasi equivoco e chiarisce innanzitutto che Gesù non era un rivoluzionario, e che l'azione della speranza non agisce direttamente sulla città terrena, se non nella sua rivoluzionaria capacità di costituire una società capace di "accettare il dolore" e chi soffre, di farsi peso della sofferenza cercando anche di alleviarla, ma prima di tutto non rifiutandola. Il problema della scienza, come poi dell'illuminismo e del marxismo, secondo Ratzinger, risiede nell'aver preteso di sostituire a questa tensione verso la città celeste il tentativo di costruire qui da noi la "repubblica del paradiso" (giusto per citare Philip Pullman). Nel confronto tra realizzazioni insufficienti e a volte aberranti e un'immagine della rivelazione vince quest'ultima solo se si riesce a considerarla come perfettamente e indubitabilmente reale, e solo se si considera unico parto dell'illuminismo il terrore rivoluzionario (e non tutte le nostre costituzioni, per esempio, e le nostre libertà), come unico parto della scienza la bomba atomica e come unico parto del marxismo la dittatura stalinista e maoista (e qui, diciamocelo, il papa ha gioco ben più facile). Certo, il marxismo è l'avversario palesemente più facile da sconfiggere, proprio per la sua sovrapponibilità allo schema della redenzione cristiana, e proprio in questa facilità va inquadrato il "rispetto" con cui Ratzinger si riferisce a Marx, elogiando la sua analisi ma criticando, giustamente, l'assenza di una teoria marxista del "dopo" la rivoluzione. Ratzinger non si accorge che il dopo non è contemplato, nella teoria marxista, proprio perché ci dovrebbe essere, come nel giorno del giudizio cristiano, una rivelazione della vera natura di ogni singolo uomo (e il fatto che tutti i malvagi borghesi siano stati sterminati tra rivoluzione e dittatura del proletariato dovrebbe facilitare ai buoni -cioè tutti gli altri - il compito di mettere su una società perfettamente giusta). Il marxismo così come era pensato alla metà dell'ottocento, e come si continuerà a pensarlo in molti luoghi anche per tutto il secolo successivo, non contempla un dopo, prescrive delle azioni e dei giudizi sull'ora per rendere il dopo chiaro e luminoso, un dopo su cui può fantasticare ma non legiferare, esattamente come il cristianesimo può fantasticare ma non legiferare sul quello che avverà dopo il giorno del giudizio, non può indicare una morale successiva a quel giorno, ma solo indicare quella capace di condurci ad esso.
Con la scienza e l'illuminismo Ratzinger usa modi meno gentili e sottili, e lo fa a ragion veduta, perché il loro schema non è così facilmente sovrapponibile a quello cristiano, e perché lo scopo di essi non è liberare gli uomini per dopo, ma liberarli adesso, e prima di tutto liberare (o amplificare) le loro energie, anche quella di fare del male. Eppure, scienza e illuminismo hanno avuto successo nel liberare le energie degli uomini, con tutto il male e il bene che ne è conseguito, bene e male che rimettono soltanto agli uomini la responsabilità e il privilegio di giudicare delle proprie azioni, che rimettono ad ogni generazione la responsabilità e il privilegio di educare quelle future, che rimettono ad ogni singola società, gruppo, famiglia o uomo di confrontarsi con il proprio senso e la propria umanità. La critica di Ratzinger all'illuminismo e alla scienza viene fatta passare attraverso una serie di capoversi in cui si proclama evidente la'impossibilità di dare un senso facendo a meno di Dio, ma è una constatazione evidente solo per chi in Dio ha speranza e quella speranza ha già deciso di considerarla prova: l'evidenza di papa Ratzinger non è una dimostrazione perché se lo fosse sarebbe piena di paralogismi, e non possiamo credere che un papa si abbassi a simili dimostrazioni di bassa retorica: Ratzinger non dimostra ma mostra la sua verità che al contempo proclama come unica, e nel paragone con una simile verità - indicata, intravista, ma mai afferrata né posseduta - ogni verità umana oltre che parziale (cosa che è ontologicamente) sembrerà contaminata dal male. Se però si crede - e io sono di quest'avviso - che le verità umane siano le uniche con cui si può lavorare e che il nostro mondo non abbia altro senso che quello che noi le diamo, sbagliando e ripartendo da zero ogni volta, dell'enciclica di Papa Ratzinger non si potrà ritenere che il monito a ripensare la nostra umanità, il male e la sofferenza in ogni singolo istante come un problema aperto: per il resto, abbiamo già dato e pensato, e quella speranza che è anche prova ci dispiace, non ce l'abbiamo davvero più, neanche in soffitta, ché ci siamo accorti che occupava troppo spazio e non ci eravamo più neanche affezionati, che non serviva a niente e anzi ci impediva di fare delle cose giuste e utili più di quanto ci impedisse di fare quelle sbagliate.

(A parte: però quello di Ratzinger è un bel testo, da professore tedesco di filosofia che crede che Kant sia il verbo e se cita qualcuno al di fuori della Germania è solo per fare un esempio esotico o se, come nel caso di Bacone, non può proprio farne a meno. A parte gli ultimi due paragrafi - ma credo una peroratio come quella che chiude l'enciclica sia una sorta di caratteristica interna al "genere" stesso - mi sono divertito, a leggerla).

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