venerdì 21 dicembre 2007

J. K. Rowlings "Harry Potter e i doni della morte"

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Con l'ultimo capitolo della saga di Harry Potter, la Rowling si risolleva solo parzialmente dal nulla narrativo e stilistico in cui era caduta con il "Principe Mezzosangue". Ci riesce innanzitutto perché per la prima volta non ambienta la storia ad Hogwarts, e l'assenza del calendario scolastico toglie molta della pesantezza che caratterizzava gli ultimi due episodi. Inoltre, riesce a riprendere alcuni degli indizi lasciati nel corso dei precedenti volumi in maniera abbastanza convincente (la psicologia di Snape, unico personaggio "adulto" dell'intera saga, ma anche altri particolari, come l'origine della proibizione di nominare Voldemort), e cerca di spiegare i punti oscuri lasciati indietro. Il vero problema della Rowling è però che non riesce mai ad evocare ciò di cui parla, nè a condurre il lettore (e nemmeno i suoi personaggi, a dire il vero) a intuire il disegno complessivo, il mondo e le storie che vorrebbe raccontare: la Rowling è costretta così ad illustrare tutto questo attraverso conversazioni estenuanti, o attraverso altri medium (gli articoli di giornale, il libro di fiabe che Dumbledore regala ad Hermione, etc.). Si tratta di una facilitazione al lettore pigro che rende le idee di fondo del libro (i doni della morte, l'ultimo horcrux di Voldemort, la differenza tra Harry e lo stesso Voldemort) simili a pezze messe lì per tappare i buchi della storia, che riduce gli snodi narrativi a botte di culo (tutta la ricerca e distruzione degli Horcruxes, soprattutto nell'episodio dei Gringott Vauls) e che toglie qualsiasi fascino ai flashback: l'esempio principe è l'amicizia tra il giovane Dumbledore e il mago Crucco, che non riesce neanche ad avere il pathos dell'amicizia adolescenziale, figuriamoci di quella maledetta o omoerotica.
Si salva la scena ambientata a casa dei Malfoy, ma la chiusura cristologica (anche se la pietà composta da Hagrid che fa la Madonna e Harry che fa il Cristo a dire il vero potrebbe essere considerata una trovata divertente) è pessima, così come la conversazione onirica tra Harry - che continua imperterrito a non capire un cazzo come nel corso di tutta la seria - e Dumbledore.
In pratica, la Rowling riesce a dissipare il patrimonio di simpatia creato dai suoi primi quattro libri (non capolavori, ma piacevoli sì, e anche intelligenti) con gli ultimi due (il quinto è già brutto, ma si salva, nel mio cuore, perché ce la fa ancora almeno ad essere divertente), non riuscendo a dire niente di più sui suoi personaggi di quanto non avesse fatto con i primi, non riuscendo nè a complicarli nè a farli crescere sul serio, semmai irrigindendoli nel loro clichè, e oltretutto creando per loro una storia e un universo farraginoso in cui muoversi.
L'unica speranza per leggere un Harry Potter bello credo sia rimasta la fanfiction, ma anche lì, a scavare per bene ci vuole tempo e la fine della saga reale mi ha fatto davvero passare qualsiasi tipo di voglia.

*(Il libro l'ho letto in inglese a settembre, ma vedere le locandine in giro in questi giorni mi ha fatto venire voglia di scriverci su, anche pensando a quanta gente lo comprerà, e a quanti ne rimarrano profondamente delusi....)

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