La nuova enciclica di Ratzinger sfrutta appieno la distanza che c'è tra il suo pubblico dichiarato (vescovi, presbiteri, diaconi e fedeli laici) e quello reale, che sono tutti gli altri: gli incerti, i disinteressati, gli agnostici, gli atei. Ratzinger sfrutta questa distanza per togliere dal novero dell'opinabile quello che è il centro del suo discorso, quello che nessun non credente potrebbe mai accettare se davvero fosse al centro della discussione; quel paradosso cioè che Ratzinger arriva a citare direttamente e che ricorda il credo quia absurdum, quello della "fede (che) ci dà la certezza". L'equivalenza tra la fede del cristiano e la certezza della vita ultraterrena, della redenzione della vita di ognuno e di tutti i dolori del mondo grazie alla rivelazione evangelica (da notare che le fonti utilizzate da ratzinger sono quasi totalmente neotestamentarie) diventa il centro non discutibile attorno a cui l'enciclica di Ratzinger si dispone, e attorno al quale vengono disposte le critiche a Marx e all'illuminismo che così tanto hanno sconvolto i laici-laici. La petizione di principio ratzingeriana è che il mondo non possa avere un senso che sia interno a se stesso, e che tale senso vada immancabilmente ricercato in qualcosa di esterno e superiore, qualcosa capace di risanare, nello sguardo che si volge indietro, tutto il male avvenuto. Il pensiero scientifico, da Bacone in poi, ha percepito l'insufficienza della risposta della chiesa al problema del male e del senso, e ha cercato un'azione sul mondo che dipendesse soltanto dall'uomo e non da una incontrollabile fiducia nella rivelazione. Ratzinger invece crede nel valore della fede come prova (è interessante il passo in cui il papa critica filologicamente la lettura luterana della parola hypostasis, non fosse altro perchè proprio in quel passo esce allo scoperto il Ratzinger più accademico), e non è disposto ad accettare alcuna risposta che sia, per sua stessa natura, parziale. Tale infatti è la risposta della scienza, che è sempre idealmente rivolta all'azione sul mondo futuro, e mai su quello passato, che non può far nulla per redimere. Per Ratzinger la scienza allarga la potenza dell'uomo, ma non influisce sulla sua libertà che, nel continuo dialogo con i testi di sant'Agostino, rimane sempre libertà di scegliere anche il male. Ecco dunque che il convitato di pietra, praticamente mai citato nell'enciclica, viene allo scoperto: la naturale tendenza dell'uomo al male, il suo essere macchiato - per chi crede - dal peccato originale, condizione di cui la morte è liberazione solo se si crede in una liberazione ulteriore, in una giustizia successiva e, più importante ancora, l'impossibilità di stabilire, su base umana, una morale che abbia la pretesa di essere immutabile, men che meno di essere scientifica. Ratzinger dice - e in questo non si può che consentire con lui - che ogni generazione, ma in realtà ogni singolo uomo, deve imparare ogni volta cosa significhi essere umani. Proprio per questo in alcune delle pagine dell'enciclica si respira il Machiavelli dei Discorsi, quello che ragiona sul ruolo fondamentale della religione nella vita degli stati. Ratzinger sviluppa un discorso esattamente sovrapponibile a quello di Machiavelli, con l'unica ovvia differenza che, se per Machiavelli una religione vale l'altra (e anzi quella pagana è più utile alla grandezza degli stati), per Ratzinger l'unica religione non può che essere quella fondata sulla speranza "vera" della rivelazione. Una speranza, va sottolineato, che si rivela essere speranza eminentemente antirivoluzionaria: da buon agostiniano, Ratzinger sgombra subito il campo da qualsiasi equivoco e chiarisce innanzitutto che Gesù non era un rivoluzionario, e che l'azione della speranza non agisce direttamente sulla città terrena, se non nella sua rivoluzionaria capacità di costituire una società capace di "accettare il dolore" e chi soffre, di farsi peso della sofferenza cercando anche di alleviarla, ma prima di tutto non rifiutandola. Il problema della scienza, come poi dell'illuminismo e del marxismo, secondo Ratzinger, risiede nell'aver preteso di sostituire a questa tensione verso la città celeste il tentativo di costruire qui da noi la "repubblica del paradiso" (giusto per citare Philip Pullman). Nel confronto tra realizzazioni insufficienti e a volte aberranti e un'immagine della rivelazione vince quest'ultima solo se si riesce a considerarla come perfettamente e indubitabilmente reale, e solo se si considera unico parto dell'illuminismo il terrore rivoluzionario (e non tutte le nostre costituzioni, per esempio, e le nostre libertà), come unico parto della scienza la bomba atomica e come unico parto del marxismo la dittatura stalinista e maoista (e qui, diciamocelo, il papa ha gioco ben più facile). Certo, il marxismo è l'avversario palesemente più facile da sconfiggere, proprio per la sua sovrapponibilità allo schema della redenzione cristiana, e proprio in questa facilità va inquadrato il "rispetto" con cui Ratzinger si riferisce a Marx, elogiando la sua analisi ma criticando, giustamente, l'assenza di una teoria marxista del "dopo" la rivoluzione. Ratzinger non si accorge che il dopo non è contemplato, nella teoria marxista, proprio perché ci dovrebbe essere, come nel giorno del giudizio cristiano, una rivelazione della vera natura di ogni singolo uomo (e il fatto che tutti i malvagi borghesi siano stati sterminati tra rivoluzione e dittatura del proletariato dovrebbe facilitare ai buoni -cioè tutti gli altri - il compito di mettere su una società perfettamente giusta). Il marxismo così come era pensato alla metà dell'ottocento, e come si continuerà a pensarlo in molti luoghi anche per tutto il secolo successivo, non contempla un dopo, prescrive delle azioni e dei giudizi sull'ora per rendere il dopo chiaro e luminoso, un dopo su cui può fantasticare ma non legiferare, esattamente come il cristianesimo può fantasticare ma non legiferare sul quello che avverà dopo il giorno del giudizio, non può indicare una morale successiva a quel giorno, ma solo indicare quella capace di condurci ad esso.
Con la scienza e l'illuminismo Ratzinger usa modi meno gentili e sottili, e lo fa a ragion veduta, perché il loro schema non è così facilmente sovrapponibile a quello cristiano, e perché lo scopo di essi non è liberare gli uomini per dopo, ma liberarli adesso, e prima di tutto liberare (o amplificare) le loro energie, anche quella di fare del male. Eppure, scienza e illuminismo hanno avuto successo nel liberare le energie degli uomini, con tutto il male e il bene che ne è conseguito, bene e male che rimettono soltanto agli uomini la responsabilità e il privilegio di giudicare delle proprie azioni, che rimettono ad ogni generazione la responsabilità e il privilegio di educare quelle future, che rimettono ad ogni singola società, gruppo, famiglia o uomo di confrontarsi con il proprio senso e la propria umanità. La critica di Ratzinger all'illuminismo e alla scienza viene fatta passare attraverso una serie di capoversi in cui si proclama evidente la'impossibilità di dare un senso facendo a meno di Dio, ma è una constatazione evidente solo per chi in Dio ha speranza e quella speranza ha già deciso di considerarla prova: l'evidenza di papa Ratzinger non è una dimostrazione perché se lo fosse sarebbe piena di paralogismi, e non possiamo credere che un papa si abbassi a simili dimostrazioni di bassa retorica: Ratzinger non dimostra ma mostra la sua verità che al contempo proclama come unica, e nel paragone con una simile verità - indicata, intravista, ma mai afferrata né posseduta - ogni verità umana oltre che parziale (cosa che è ontologicamente) sembrerà contaminata dal male. Se però si crede - e io sono di quest'avviso - che le verità umane siano le uniche con cui si può lavorare e che il nostro mondo non abbia altro senso che quello che noi le diamo, sbagliando e ripartendo da zero ogni volta, dell'enciclica di Papa Ratzinger non si potrà ritenere che il monito a ripensare la nostra umanità, il male e la sofferenza in ogni singolo istante come un problema aperto: per il resto, abbiamo già dato e pensato, e quella speranza che è anche prova ci dispiace, non ce l'abbiamo davvero più, neanche in soffitta, ché ci siamo accorti che occupava troppo spazio e non ci eravamo più neanche affezionati, che non serviva a niente e anzi ci impediva di fare delle cose giuste e utili più di quanto ci impedisse di fare quelle sbagliate.
(A parte: però quello di Ratzinger è un bel testo, da professore tedesco di filosofia che crede che Kant sia il verbo e se cita qualcuno al di fuori della Germania è solo per fare un esempio esotico o se, come nel caso di Bacone, non può proprio farne a meno. A parte gli ultimi due paragrafi - ma credo una peroratio come quella che chiude l'enciclica sia una sorta di caratteristica interna al "genere" stesso - mi sono divertito, a leggerla).
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5 commenti:
La mia naturale tendenza al male mi suggerisce numerosi mezzi per costringere Ratzi all'onere della prova. O quantomeno per dargli modo di dimostrare la sua cristiana accettazione del dolore.
Quella speranza è prova e luogo, da quel luogo(futuro) si dipanano le miserie presenti, acquistando ordine e significato ...per chi invece non ha bisogno né dell'uno né dell'altro per addolcire i propri drammi, il solo e unico verbo è il pastafarianesimo!
Sia lodato il Signore Pastoso :-)
ma sei una grande! anch'io per un attimo ho pensato di aderire alla chiesa del mostro di spaghetti volante,ma devo dire che la Chiesa del Subgenio continua a sembrarmi quella più bella e con l'iconografia più elegante.
imparato molto
quello che stavo cercando, grazie
Perche non:)
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