domenica 28 ottobre 2012
giovedì 18 ottobre 2012
IL MONDO NUOVO
« Essere, o non essere, questo è il problema: se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine. Morire, dormire… nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine
al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione
da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo,
perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale deve farci esitare. È questo lo scrupolo che dà alla sventura una vita così lunga.
Perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo, il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo, gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge, l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo che il merito paziente riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe darsi quietanza con un semplice stiletto? Chi porterebbe fardelli, grugnendo e sudando sotto il peso di una vita faticosa, se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte, il paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà e ci fa sopportare i mali che abbiamo piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti? Così la coscienza ci rende tutti codardi, e così il colore naturale della risolutezza è reso malsano dalla pallida cera del pensiero,
e imprese di grande altezza e momento per questa ragione deviano dal loro corso e perdono il nome di azione. »
Ore 17:00, italiano, compito in classe: breve riassunto del monologo, varie domande sul perché e il percome e infine la domandona: che ne penso io e i giovani ( ‘sti cazzo di giovani ) del suicidio e legami con il monologo. Due ore di tempo. In realtà quattro, ma io il giorno prima ero assente. Io ho pure letto un saggio sul suicidio, quello di Marzio Barbagli. E mi sono anche impegnato per tirare fuori qualcosa di sensato, pure nel breve tempo a disposizione, considerando che poi dovevo ricopiare in bella e rispondere alle altre domande. Considerando soprattutto che non so cosa pensano i giovani del suicidio e di Amleto, e neanche io in fondo. A un certo punto guardando i miei compagni mi è venuta la curiosità circa i loro pensieri. Chissà che avranno scritto. Io non ho resistito a tirare in ballo Ian Curtis e DFW, così alla cazzo di cane, un po’ per vedere se la prof mi chiederà chi sono ( magari li conosce ) e un po’ per vezzo, dopo un accenno a un amico che lavora in fabbrica e che un motivo per farla finita ce l’ha di fronte quasi tutti i giorni. Però in verità mi è piaciuto farlo, avere la sensazione di poter dire qualcosa di significativo con la campanella che incombe e la consapevolezza che no, non è in quelle mie poche righe, una ventina, che si cela un qualsiasi segreto. Se c’è una cosa che ho capito è mi affascina l’idea del suicidio, se un artista si è suicidato subito mi viene l’interesse per le sue opere. Molto comune immagino e molto banale. Quando ero più giovane ( dagli! ) e squinternato vivevo molto male, non so fino a che punto ne ero consapevole, ma certamente ripensandoci mi rendo conto di quanto tempo ho sprecato e di quanta vita ho fatto a meno ( non saprei come definire il fatto che una persona racconti i fatti propri sul web, una sorta di esondazione biografica, una estrema solitudine nonostante una vita sociale accettabile. Un po’ di tempo fa Elasti segnalò un blog di una giovane che raccontava il suo problema e a me pare una cosa incredibile, che supera l’interesse per Shakespeare ). Insomma, direi che questo monologo mi fa pensare a ciò che sta in mezzo, ovvero come vivere meglio. Come stiamo, dunque?
Infine il film, Alps, il secondo di Lanthimos che vedo, curiosamente l’altro film di lui che ho visto è stato il primo che ho recensito qua. Non so bene cosa dirne, l’altro ( Dogtooth ) mi pare migliore. Una farsa fredda e desolante, imbarazzante, a sprazzi ridicola. Partendo dalle parole del regista, è un film in cui delle persone cercano di sfuggire dalla propria vita per metterne in scena un’altra, impersonando persone defunte al servizio dei loro famigliari. Come Amleto non sa più se la sua follia sia recitata o vera ( almeno da quel che ho capito, o almeno da quello che c’è scritto sul libro di testo, dato che l’opera intera non la conosco ), così la protagonista non si accontenta di fingere.
Ore 17:00, italiano, compito in classe: breve riassunto del monologo, varie domande sul perché e il percome e infine la domandona: che ne penso io e i giovani ( ‘sti cazzo di giovani ) del suicidio e legami con il monologo. Due ore di tempo. In realtà quattro, ma io il giorno prima ero assente. Io ho pure letto un saggio sul suicidio, quello di Marzio Barbagli. E mi sono anche impegnato per tirare fuori qualcosa di sensato, pure nel breve tempo a disposizione, considerando che poi dovevo ricopiare in bella e rispondere alle altre domande. Considerando soprattutto che non so cosa pensano i giovani del suicidio e di Amleto, e neanche io in fondo. A un certo punto guardando i miei compagni mi è venuta la curiosità circa i loro pensieri. Chissà che avranno scritto. Io non ho resistito a tirare in ballo Ian Curtis e DFW, così alla cazzo di cane, un po’ per vedere se la prof mi chiederà chi sono ( magari li conosce ) e un po’ per vezzo, dopo un accenno a un amico che lavora in fabbrica e che un motivo per farla finita ce l’ha di fronte quasi tutti i giorni. Però in verità mi è piaciuto farlo, avere la sensazione di poter dire qualcosa di significativo con la campanella che incombe e la consapevolezza che no, non è in quelle mie poche righe, una ventina, che si cela un qualsiasi segreto. Se c’è una cosa che ho capito è mi affascina l’idea del suicidio, se un artista si è suicidato subito mi viene l’interesse per le sue opere. Molto comune immagino e molto banale. Quando ero più giovane ( dagli! ) e squinternato vivevo molto male, non so fino a che punto ne ero consapevole, ma certamente ripensandoci mi rendo conto di quanto tempo ho sprecato e di quanta vita ho fatto a meno ( non saprei come definire il fatto che una persona racconti i fatti propri sul web, una sorta di esondazione biografica, una estrema solitudine nonostante una vita sociale accettabile. Un po’ di tempo fa Elasti segnalò un blog di una giovane che raccontava il suo problema e a me pare una cosa incredibile, che supera l’interesse per Shakespeare ). Insomma, direi che questo monologo mi fa pensare a ciò che sta in mezzo, ovvero come vivere meglio. Come stiamo, dunque?
Infine il film, Alps, il secondo di Lanthimos che vedo, curiosamente l’altro film di lui che ho visto è stato il primo che ho recensito qua. Non so bene cosa dirne, l’altro ( Dogtooth ) mi pare migliore. Una farsa fredda e desolante, imbarazzante, a sprazzi ridicola. Partendo dalle parole del regista, è un film in cui delle persone cercano di sfuggire dalla propria vita per metterne in scena un’altra, impersonando persone defunte al servizio dei loro famigliari. Come Amleto non sa più se la sua follia sia recitata o vera ( almeno da quel che ho capito, o almeno da quello che c’è scritto sul libro di testo, dato che l’opera intera non la conosco ), così la protagonista non si accontenta di fingere.
mercoledì 17 ottobre 2012
...
Un'intervista ( si può anche scaricare )
http://www.antiviolenzadonna.it/
http://maschileplurale.it/
martedì 16 ottobre 2012
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Eterni cortili di scuola ( schoolyards of forever ) - Charles Bukowski
il cortile della scuola era una fiera degli orrori: i bulli,
i
fanatici
i pestaggi contro la rete di recinzione
con i compagni che stanno a guardare
contenti di non essere loro le vittime;
ci menavano per dritto e per rovescio
giorno dopo giorno
e poi venivamo
seguiti
presi per i fondelli per tutta la strada fino a casa dove
spesso
ci aspettavano altre botte.
nel cortile della scuola i bulli avevano il potere in mano
e nei bagni e
alle fontanelle facevano
il bello e il cattivo tempo
ma a modo nostro noi tenevamo duro
non abbiamo mai chiesto pietà
li affrontavamo a faccia aperta
in silenzio
siamo stati temprati da quelle cose orrende
cose orrende che in seguito ci sarebbero tornate utili
e allora stranamente
mentre noi ci facevamo più forti e più spavaldi
i bulli a poco a poco hanno cominciato a stare sulle loro.
elementari
medie
superiori
siamo cresciuti come piante trascurate e fuori posto
trovando nutrimento dove capitava
sbocciando col tempo
e poi quando i bulli hanno cercato di diventare nostri amici
noi li abbiamo respinti.
poi l’università
dove sotto regole nuovi
i bulli si sono squagliati quasi del tutto
noi diventavamo di più e loro diventavamo molti di meno
ma adesso c’erano dei nuovi bulli
i professori
ai quali si dovevano insegnare le dure lezioni che avevamo
imparato
godevamo da matti
era sontuoso e facile
le compagne costernate dal nostro rischiare
e dalla nostra freddezza
ma noi non ce le filavamo per niente
in attesa della battaglia più tosta là fuori
poi quando siamo arrivati là fuori
ci siamo trovati di nuovo con le spalle al muro
daccapo con altri bulli
profondamente rafforzati dalla società
capi e consimili
che ci hanno tenuto al nostro posto per decenni a venire
così che abbiamo dovuto ricominciare tutto da zero
per strada
e in anguste stanze di follia
stanze sempre con poca luce in pino giorno
è andata avanti così per anni e anni
ma il nostro addestramento precedente ci ha permesso di
resistere
e dopo un tempo apparentemente
infinito
finalmente abbiamo imboccato il tunnel in fondo alla luce
è stata una vittoria da ben poco
senza canzoni da smargiassi perché
sapevamo di aver vinto molto poco dal molto poco che c’era
da vincere
e che avevamo combattuto tanto duramente per esser liberi
solo per la dolce soddisfazione dell’impresa
ma ancora adesso vediamo il bidello delle elementari
con la sua scopa
e la faccia sonnacchiosa;
vediamo ancora le ragazzine ricciute
dai capelli meticolosamente spazzolati e lucenti
negli abiti appena inamidati;
vediamo le facce degli insegnanti
ingrassati ingobbiti infelici;
sentiamo la campanella della ricreazione;
vediamo l’erba e il diamante del baseball;
vediamo il campo da pallavolo e la rete bianca;
sentiamo il sole lassù sempre alto e lucente
che si riversa su di noi come il succo di un mandarino
gigante
e non ce lo siamo dimenticati presto
Herbie Ashcroft
il nostro aguzzino principale
dai pugni duri come sassi
quando ci rannicchiavamo intrappolati contro la rete di
metallo
e sentivamo il rumore delle auto che passavano senza
fermarsi
mentre il mondo se ne andava in giro a fare quel che fa di
solito
noi non chiedevamo mai pietà
e ritornavamo il giorno dopo e il successivo e quello dopo
ancora
in classe
con le ragazzine dall’aspetto tanto calmo e sicuro
sedute belle dritte al loro posto
in quell’aula di lavagne e gesso
mentre noi restavamo cupamente aggrappati al nostro sdegno
ostinato
per tutto quell’orrore e quei conflitti
e aspettavamo che qualcosa di meglio
arrivasse a darci conforto
in quel mondo da-non-scordarsi-mai
della scuola elementare.
(…and
waited for something better
to come
along and comfort us
in that
never-to-be-forgotten
grammar
school world. )
domenica 7 ottobre 2012
ECCOLI QUA
Non distinguere la luce dal buio mentre si aspettano notizie
peggiori che il morire stesso.
Di fianco giacciono scatole di cioccolatini scaduti affiorano
formiche da ogni dove
non respiro più come prima e mi annoio. Cosa provo a parte
un leggero sconforto dovuto alle previsioni del tempo e alla lettura del
giornale di ieri, chi osservo, chi sono questi tizi che camminano nella mia
casa in cerca di oggetti che non possiedo più da tempo?
Tu mi dicevi sempre che non è bello andarsene dal cinema
senza vedere tutti i titoli di coda, ma io sapevo risponderti con una timida alzata
di spalle che poi avrei comprato il dvd.
La spesa l’ho fatta, il meccanico è stato scortese e mi ha
sbirciato insistentemente la scollatura, mentre io fissavo le sue mani sporche
e il nero fra le unghie e il viscido negli occhi, desiderosa che morisse e
cadesse così ai miei piedi.
Ancora mi manchi?
In questo sono simile ai pesci, può sembrare che non abbia
niente da dire, che mi accontenti di aprire la bocca per prendere fiato, che mi
rassegni al ruolo, a qualsiasi ruolo che mi sia stato assegnato, e basta, che
io finisca lì, che esista solo su chiamata, solo se servo a qualcuno, a
qualcosa.
Alla famiglia che senza di me, all’educazione dei figli,
adesso anche nei parlamenti e nelle giunte comunali, nelle facoltà
scientifiche, servo sempre di più. Servo.
Di nuovo avverto la sua ombra, le sue mani bramose di carne
palpabile, vorrebbe strappare ogni tessuto sintetico che incontra, ogni fibra
naturale che l’ostacola, sento il suo respiro affannato, sento che sta per cedere
alla bestialità tramandata da millenni e anche di più, sento che ogni mio grido
sarà malinteso, sarà linfa vitale per l’animale.
Anche ieri hai impiegato mezz’ora per accordare la tua
chitarra, hai sempre paura di rompere l’ultima corda, la più sottile, sei stato
fermo con il pollice e l’indice della mano sinistra a fissare l’accordatore
elettrico che si è fatto buio e ho dovuto accenderti la luce, ti ho chiamato
due volte e vedevo che tremavi un poco. Poi non volevi mangiare.
Non ho sonno, eppure dovrei. Domani mi aspetta una
giornataccia; se passo la mano nell’altra metà del letto sento tutta l’assenza
del mondo, sento una parte del mio cuore uscire di nuovo senza salutare.
C’è ancora spazio per la polvere nella mia testa, urla mia
madre che sta seduta di fronte alla finestra a guardare il mare. Siamo al quinto
piano. Nel palazzo ci odiano tutti. La chitarra di mio figlio e le urla di mia
madre. Me stessa. Quando scendo e salgo le scale le occhiate mi trafiggono.
Sento le buste della spesa strapparsi, le bottiglie d’olio andare in frantumi e
la mia disperazione nuda di fronte alle risate sguaiate e sprezzanti
sommergermi fino a farmi soffocare.
Ancora 4 in
matematica. Più una specie di zuffa per colpa di una offesa. Una macchiolina di
sangue altrui sui jeans e una convocazione dalla preside dell’istituto tecnico industriale.
E tu correvi con il
sole alle spalle e ridevi con il naso all’insù. Eri felice e si vedeva.
La dimensione del lutto è tetra e commovente, però anche
liberatoria, soprattutto nei funerali sotto la pioggia. Quando penso a qualcuno
che se ne è appena andato, penso che il mondo sarà per un po’ più leggero, e
anche il suo corpo, libero dal peso dell’anima, libero dagli sguardi degli
altri, dai loro pensieri, onde che colpiscono, colpiscono sempre, micro punture
insistenti fino a che la misura è colma.
Non mi crede più. Mio figlio da quando prende brutti voti a
scuola non mi crede più. Dice che gli ho sempre detto che era bravo e
intelligente e adesso dice che lo prendono in giro. Ora è meglio aspettare e
sperare in un buon voto, mi va bene anche se in religione o educazione fisica.
Ma ce l’avrà una fidanzatina?
Cos’è che mi manca allora, che mi aspetto ancora dalla vita,
dalle vite, da quelle degli altri, da questa città, da questa casa con famiglie
e luci accese a fingere il focolare domestico, cosa dovrei aspettarmi prima di
invecchiare? Dovrei forse rimettermi in cerca di un uomo, un altro? Adottare
una sorellina per allargare l’allegra compagnia, magari un cucciolo che costa
pure meno, potrei uccidere la vecchia sorda che urla invece, e dare una svolta
netta a questa storia, invece che lamentarmi; posso? Non ho vizi, non
bevo e non mi drogo, mi lavo, fatico, mando avanti una casa e una famiglia.
Prenderai freddo così, còpriti - mettiti la felpa grigia
quella con il collo alto... - sennò mettiti la sciarpa - a che ora torni? È troppo
tardi, si cena alle sette e mezzo lo sai - come sarebbe che mangi da solo? –
Non se ne parla neanche.
Un vecchio assiste al suo riflesso di fronte ad una vetrina
di un negozio di dolciumi, scoprendo nuovi solchi sulla pelle, nuove rughe,
nuovi segni di un passato, mentre un tuono all’improvviso gli ricorda che è il
momento, la vita prova a distrarlo per un’ ultima volta. No, queste sono
scemenze.
Alle sue spalle rapinatori in maschera fuggono sparando
colpi in aria, lasciandosi alle spalle i corpi sgraziati e macchiati dalla
pioggia e dal sangue di due gemelline che ancora stringono i lecca-lecca in
mano, le sirene della polizia strillano ma non per loro, è un giorno da cani e
c’è molto da fare.
La benzina io la metto alla sera, quando torno dal lavoro,
la metto da sola anche se d’inverno fa freddo e mi sporco le mani. Però l’odore
che da bambina non facevo altro che aspettare ogni volta che uscivamo in
macchina non mi stupisce più, non lo avverto neanche. Guardo lontano, il
quartiere dove abito, si vede il mio palazzo, le luci accese a quasi ogni
piano. Non so se è come dicono, che il cemento che avanza ha distrutto il paesaggio
di un tempo, ma certo lo sguardo è sempre in prigione, senza possibilità di
evadere se non volgendosi al cielo, non riesco più a pensare al futuro, ai miei
spazi, sono finite le possibilità di immaginarsi i cambiamenti, vedo muri che
stringono il cerchio, che tolgono il respiro. Non c’è spazio neanche per
camminare, si cammina in macchina, a passo d’uomo con tubi di scarico come
valvole di sfogo. La radio è meravigliosa, se non ci fosse la radio nel
traffico ci sarebbero continue stragi, la gente comincerebbe a girare armata in
attesa di una freccia non messa, di una macchina che si spegne, di un clacson
stridulo e impertinente. Eppure arrivo tutti i giorni puntuale al lavoro, nel
mio studio dai colori tenui e accoglienti con la musica da camera diffusa a
basso volume, dove trascorro la vita ad ascoltare gli altri mentre penso a cosa
aggiungere prima che il tempo sia scaduto e tocchi al prossimo.
M. prima di cominciare a parlare respira con ritmi
irregolari e sembra prendere la rincorsa, poi è un fiume in piena di parole, fino
a che si ferma di colpo, prende una grossa boccata d’aria che sembra che
ricominci o che voglia chiudere con qualcosa di grosso e invece si spegne,
guarda basso e produce un piccolo sospiro.
Capisce! La mia cacca,
la mia cacca stava tutta nei pantaloni, era fredda, fredda! Era cacca morta.
Non puzzava, però era fredda. E allora Napoleone doveva sentirsi solo in
quell’isola lontana, così solo, e intanto la cacca mi faceva venire i brividi e
la maestra mi guardava perplessa, mi diceva continua che stai andando bene, ma
io mi sentivo come Napoleone, solo e in imbarazzo, ce la siamo fatta sotto
tutti e due, poi ho chiesto di andare in bagno, la maestra mi ha risposto prima
finisci, io ho detto non posso, poi ho detto sono Napoleone esigo di essere
lasciato libero di andare in bagno, e tutti a ridere i miei compagni, la
maestra si è spaventata perché io l’ho detto con una voce strana, una vocina
come un diavoletto, stridula mi ha detto che si dice la maestra, che le ha
fatto venire i brividi, perché anche i miei occhi erano diversi quando gliel’ho
detto. E allora la maestra non riusciva a dire nulla e tremava e io che non ce
la facevo più ho cominciato a mettermi le mani nelle mutande e a tirare fuori
dei pezzettini di cacca, che un po’ era liquida e un po’ era solida, ma non
puzzava, e allora i compagni tutti a ridere come matti, qualcuno strillava,
qualcuno c’aveva proprio lo schifo dipinto in faccia, però io non riuscivo a
togliermi tutta la cacca di dosso e allora mi sono abbassato i pantaloni e pure
le mutande per fare meglio e sono rimasto con il pisello di fuori che era
diventato tutto marrone e c’aveva la pelle raggrinzita perché poi mi hanno
detto che quando i maschi sentono il freddo gli fa così il coso loro.
Prendo appunti, scarabocchi, farfalline e cuoricini. M. fa
un lavoro molto semplice: è impiegato alle poste italiane, accoglie chi arriva
all’ingresso e fornisce le prime indicazioni, preme i pulsanti della
macchinetta che stampa i numeri per le file, tre pulsanti per le diverse
operazioni.
Vive in periferia, una casetta con poche stanze ereditata
dai suoi genitori; vive con un gatto, un gatto bianco e grasso, nella foto che
mi fece vedere si capiva chiaramente; ha 41 anni. È brutto, non ci sono molte
parole per farlo capire ed è anche spiacevole doverlo dire, perché sembra
avercele tutte; è solo e brutto, ha una collezione di giornate tutte uguali
divise per luoghi in cui ha trascorso la sua esistenza, la casa quando erano
vivi i suoi genitori, la scuola elementare, la scuola media, il lavoro alle
poste, la sua casa adesso. Per campare non gli manca nulla, può arrivare dritto
alla morte senza intoppi, e più lo ascolto più mi sembra che non dovrebbe
essere qui a raccontarmi le sue vicende, a farsi leggere i suoi sentimenti, a
farsi cavare fuori da sé quello che tiene nascosto, quello che sarebbe stato se
non fosse nato e cresciuto in mezzo alla sfortuna.
Ancora il vecchio dell’altro giorno. Ha un foglietto in
mano. È una multa. Mi chiede perché gliel’abbiano fatta. Sulle prime non lo
capisco nemmeno io. Poi capisco che ha parcheggiato troppo vicino alla
carreggiata. Ci parcheggiano tutti. È toccata a lui stavolta. Gli chiedo se
ricorda della rapina, delle bambine uccise. Niente, non capisce, pensa solo
alla multa, a come fare per il reclamo. Lo accompagno al bar. Gli chiedo se ha
i soldi per pagare la multa. Dice di sì, per fortuna ha la pensione. Ne ha due.
Gli arrivano ancora i soldi dalla Francia, in cui visse per 10 anni appena dopo
la fine della seconda guerra mondiale. È sposato, ha quattro figli, tre sono
donne.
Eccoli qua, gli uomini che incontro.
sabato 6 ottobre 2012
500?
Charles Bukowski – Con i soldi
C’è questo fantino superstar che è stato preso da
per la parola scritta e una sera
a casa mia mi ha chiesto
“senti c’è niente che posso leggere?” gli ho risposto:
“be’, c’è un tale Céline, ha scritto un libro intitolato
Viaggio al termine della notte”.
un paio di sere dopo
mi ha telefonato.
“senti, non riesco a trovare quel libro in nessuna
libreria”;
così gli ho detto dove poteva trovare
Céline.
un giorno l’ho incontrato all’ippodromo e gli ho chiesto:
“hai trovato quel libro o no?”
e lui ha detto: “certo”.
ogni volta che l’ho incontrato all’ippodromo dopo quella
volta
gli chiedevo:
“hai letto quel libro o no?”
“no”, mi rispondeva.
l’ultima volta mi ha detto: “non mi ha preso”.
troppo lento”.
“cosa?”, ho detto io.
“eh sì”, ha risposto. “ho passato il libro a mia moglie”.
“ben fatto”, ho detto. “e allora?”
“ha detto che è deprimente”.
ho fatto la mia giocata e poi sono tornato in auto a casa, e
pensavo:
non è possibile che stia parlando di Céline, non il Céline
che ho letto io
quella piovosa sera invernale
così tanti anni fa
dopo una lunga giornata alla Compagnia Elettrica Acme
passata
a imballare lampadari
in casse di legno.
leggendo Céline per la prima volta là in
camera mia
mi sono messo a ridere forte a quella folle verità
mi sono messo a saltare sul letto
mi sono messo a pancia sotto picchiando il materasso
con il pugno, pensando: nessuno è capace di scrivere
così, questo è il principio e la fine e la parte di
mezzo di tutto
quanto!
lo vedo ancora quel fantino all’ippodromo
di tanto in tanto, è una
pasta d’uomo, ma
davvero non è più lo stesso per
me.
parliamo soltanto dei
cavalli e la finiamo
lì.
( mai letto Céline )
Messa da parte la nostalgia, cosa resta? Origin of symmetry, 16 anni – quante pose, quante
possibilità di non pensare al futuro e pure di vedersi ovunque – 16 anni, non
mi ricordo più. Forse era l’estate dei baci dati un po’ per caso un po’ per
forza – o quella sarebbe venuta dopo – forse era già iniziato il mio personale
Medio Evo ( senza splatter e allucinazioni ). Forse era solo un bel disco, per
quel che ne capivo. Soprattutto era un disco vissuto, risuonato, era il credere
che le cose fossero là dentro, incise in quel dischetto di plastica, che i Muse
( ma per ognuno valgano i propri ) fossero uno dei centri del mondo. E per
molti lo sono ancora. Riascoltarli oggi, in cuffia, 11 anni dopo, è un’altra
cosa. Che dire? I Muse prima erano un suono ben preciso, erano reminiscenze
romantiche, erano ambiziosi nel far sembrare travolgente quello che era scarno,
erano sull’orlo della caduta rovinosa. Erano un film a basso costo girato con
talento immenso. Oggi sono un kolossal che rimescola pezzi di rock vario, sono
un’onda d’urto con la musica alle spalle. Per un fatto di poco conto non fanno
più parte di me, non mi hanno tradito loro, li ho lasciati io, e senza dire
niente. Non si torna indietro, come in fondo si trae dal titolo del loro ultimo
album, The 2nd law. Sul web ne ho lette di recensioni, grossomodo si dividono a
metà fra positive e negative, e dopo tre ascolti, in cuffia e tutti in una
notte ne scrivo qualcosa.
LE PORCATE: Supremacy – ingredienti: Led Zeppelin, James
Bond, Morricone.
Survival ( meno il preludio: ma perché Bellamy non scrive
una bella sinfonia o un concerto per piano e orchestra? ) – ingredienti: Queen,
impeto sproporzionato, cori da duello all’ultimo sangue.
Explorers – ingredienti: candore e arpeggi, la neve là
fuori, melodie riprese da riprese di riprese. Carrello a partire dal tenero
abbraccio, stacco sul bambino sorridente, titoli di coda.
LA
TENTATRICE: Madness – ingredienti: non lo so. Fa tanto
ritorno a casa in macchina di notte ripensando alla scena di prima.
LA
DANZERECCIA: Panic Station – ingredienti: Queen, funky, slap
bass, ottoni, ammiccamenti vari
LA
DANCERECCIA: Follow Me – ingredienti: battiti cardiaci
neonatali, I Will survive, la discoteca in fa minore
LA THOM-YORKINA: Animals – ingredienti: John
Frusciante meets Paranoid Android.
LA GNORRI:
Big Freeze – ingredienti: la faccia tosta.
LE NOVITÀ: Save Me + Liquid State – ingredienti: canta il
bassista. Beach Boys e - boh -Foo Fighters?.
LE COLONNE SONORE: Unsustainable + Isolated System –
ingredienti: videogiochi, fantascienza, Philip Glass, bassi pompati, senso di
fine imminente dovuta a un virus inarrestabile.
giovedì 4 ottobre 2012
IL MONDO NUOVO
Reality ( 2012 ). Regia di Matteo Garrone.
L’umanità varia e irripetibile. Ossessioni e stramberie pittoresche
di massa, quella dell’apparire, dell’uscire dall’anonimato, dell’essere famosi.
Lo sguardo sognante si posa sui moderni Freaks ( detto senza nessunissima
voglia di giudicare, anzi, detto perché provo disagio quando mi pare di
esercitare uno sguardo dall’altro in basso, con l’aria di chi pensa di un altro
che è uno stupido ), che per fortuna sono talmente tanti da essere divenuti
pubblico e protagonista ( ecco, alla fine sono un
potenziale fenomeno da baraccone, solo più controllato, più silenzioso, più
consapevole magari ). Una fiaba senza l’atmosfera dei boschi e dei
castelli, senza la magia Burtoniana, ma con i contrasti spiazzanti di una
famiglia popolare ( per capirci ) che vive in un palazzo antico, si traveste per
una Versailles trash ( ammesso che una volta non lo fosse ) e si strucca compostamente prima di andare a dormire.
Peccato che l’ideuzza di andare in tv si insinui nel protagonista e lo travolga
pian piano fino a fargli perdere ogni contatto con la realtà ormai sfuocata per
sempre e fino a lasciarlo disteso e ridente. E poi Gaetano ( Troisi ), la sua
timidezza o presunzione, i suoi tic. Non solo battute memorabili, ma una
piccola indagine sui comportamenti, sul lasciarsi andare, sul bisogno di
parlare, sulla gelosia.
venerdì 28 settembre 2012
LE PAROLE NEL DISTACCO
Viaggiare insieme. Fare dei figli. Non rinunciare alla
possibilità di trasmissione di esistenze legate ad un filo d’amore, quando va
bene. Invece ti lascio insieme ai ricordi del nostro tempo. Io ho fallito
perché non ho più creduto a noi, e a te. Ti lascio per sempre, e sarà così
rapida questa notizia che ti attraverserà come una fitta, almeno spero, e ti
abbandonerà subito, lasciandoti un piccolo vuoto. Dolore e sconforto potrai
metterceli e non pensarci più. Ti auguro di fare così e di non soffrire per me,
non sentirti in colpa se non vuoi stare male, è la cosa più giusta da fare.
Nella terra dove andrò a morire il nostro distacco avverrebbe serenamente, e
dato che già distanti lo siamo non angustiarti, io sono già morto, è successo,
tu stavi leggendo ed io già non c’ero.
Lei è lontana qualche passo, è china a raccogliere dei
fiorellini e il vento le smuove il vestito leggero che diventa un insieme di
piccole onde e le vorrei scattare una foto ma ho dimenticato la macchinetta in
albergo. Mi giro e l’oceano mi sorprende di nuovo, per un attimo ho paura e poi
mi ci abituo, ma quando torno ad osservarlo è sempre troppo grande, immenso, lo
guardo e cerco un punto che non c’è, non c’è mai, troppo. Io sono stanco e
abbiamo fame tutti e due, ma dobbiamo aspettare mezz’ora prima che la corriera
riparta per la città. Fra due ore avremo tutto a disposizione, l’albergo e i
ristoranti, le passeggiate fra i turisti, l’odore di patatine fritte e pesce
fritto e qualsiasi altra cosa che s’avvicini al naso, ma adesso siamo fermi e
allo stesso tempo siamo finalmente stranieri in terra straniera, affamati e
ansiosi di arrivare, di avere ristoro e compassione, finalmente.
Intorno c’è solo oceano e scogliere, uno spiazzo per i
pullman, il chiosco per i turisti, in pietra bianca, gelido all’interno per
l’aria condizionata, pieno di statuine, cartoline e altre cose che non distinguo,
che non riesco a guardare a lungo, che mi sembrano insignificanti, ma non so
neanche se lo sono effettivamente. Come l’attesa e la noia, non so più se mi
piacciono o se le detesto, io che mi sforzo di non fare il turista caprone che
calpesta il mondo e lo sradica ingordo, e ci pianta la sua bandierina e la
osserva tronfio, io che so o sapevo godere mentre aspettavo, la nave, le
scalette, le file, gli scorci di paesaggio, i vicoli scarni, i panni stesi
fuori. Allora ripenso ai viaggi che abbiamo fatto, io e Lei, ma questi momenti
non ci sono, ho solo i bei ricordi, le cartoline mentali che ci siamo spediti a
futura memoria e gioia, gli spruzzi d’acqua e le orme nel deserto, i tuffi
dagli scogli e i pesci colorati. Cieli, cieli d’ovunque, stellati, tersi,
minacciosi, infuocati e spenti, stelle cadenti, desideri espressi mentre le
labbra esaudivano.
-
Mi reggi la borsa?
-
…
-
Oi, mi reggi questa?
-
Che?
-
La borsa, me la reggi?
-
Ah, si scusa.
-
a che pensavi?
-
A niente.
-
Però sembravi così preso.
-
In effetti, qualcosa c’era, ma mi sfugge, non so se è
una cosa cui penso o se penso a quello che sto pensando.
-
Basta che non cadi di sotto, Einstein!
No, non cado, anche se è un’idea, sarebbe ottima, se ci si
potesse tuffare senza farsi male, così, da un centinaio di metri, verso il mare
di sotto, liberi da tutto. Se fosse possibile assaporare le sensazioni mentre
si è in caduta libera. Ma non ci credo, mi sembra troppo veloce, dovrei provare
il paracadutismo, me lo dico sempre, ma poi me lo dimentico. Ma come fa! È lì
che sorride e mi guarda, mi prende in giro perché dico delle scemenze
incredibili e mi sopporta, è felice, stanca come me ma è felice, sa ancora
aspettare e apprezzare questi momenti di nulla estasiante, di polvere calda e
accogliente, di sguardi fra persone di lingue diverse che si passano accanto a
voce bassa e con discrezione, tutti ad osservare questo punto estremo d’Europa,
a trattenere il fiato mentre ci si avvicina a piccoli passi sul bordo della
scogliera, dove non c’è neanche un appoggio per le mani, per sporgersi in
avanti senza rischiare di cadere. Oppure dovrebbe fingere, ma fingere con una
maestria che non è concepibile se non si vuole pensar male ad ogni costo, gli
occhi non dovrebbero mentire, i ciuffi di capelli che il vento fa frusciare, le
ciocche che si attaccano agli estremi della bocca, tutto sta a dimostrare la
sua felicità. Ci credo, le credo, maledetto io che non sono più capace, ho
dimenticato le basi, ho buttato la mappa nel fuoco, ho smarrito il senso
dell’orientamento vitale, non mi sento più nessun vestito comodo addosso,
nessun colore è giusto, nessuna misura: troppo stretto, troppo largo, fa
difetto, è pesante. Lo specchio, lo specchio. Io non mi specchio più, mi guardo
di sfuggita per non trovare difetti, alito sulla superficie vitrea per creare
confusione, cerco di uscire dal bagno prima possibile, lascio la mia coscienza
a fare i conti con qualcun altro, che si trovi anche lei un’altra coscienza. Scappo
al lavoro, corro in ufficio, chiunque incontro devo sembrare in perenne fretta,
è tardi, è sempre tardi per tutto. Lei resta ancora salda affianco a me e
sembra non soffrire, io quasi ci provo ad esasperarla, faccio dei tentativi che
vanno sempre a vuoto, come se lei sapesse, o come, ed è quello che temo, che
lei sia troppo lontana dalla mia inadeguatezza per accorgersi. Lei è rimasta
umana mentre vive, io mi sono trasformato in cavia da laboratorio e scienziato
pazzo allo stesso tempo, mi osservo e mi costringo, analizzo sadicamente e mi
premio, tutto da solo, vicino alla follia, se fosse facile accorgersi di essere
pazzo, ma non lo è.
-
Dai alzati, che stiamo per partire, mannaggia che ti
sei dimenticato la macchina fotografica, guarda che bello, dammi un bacio
almeno, mettiamoci in posa per la natura, facciamo che lassù qualcuno ci sta
guardando per decidere se sbarcare sulla Terra e ci vede e capisce che si deve
sbrigare che sennò finisce lo spettacolo.
Guardare il mondo da un aereo mi rilassa, il sottofondo del
motore e il brusio quasi inavvertito degli altri passeggeri mi cullano e mi
rassicurano. La perfezione sarebbe poter stendere le gambe, addirittura
sdraiarsi ed aspettare l’arrivo. Un aereo trasparente. Appena scesi il pensiero
che sia finita qui mi coglie e sento che non mi lascerà più. Il disfacimento è
completo, il mio unico obiettivo è non vedere che vuoto intorno a me, è non
sentire altro che il mio respiro, e se possibile il mio battito cardiaco. Il
mio lento morire dovrebbe avvenire al freddo, mi immagino che cammino nella
neve, magari nella tormenta, sono un esploratore del suicidio, uno dei più
bravi, e dunque non lascerò che la mia traccia, immobile e ghiacciata, e chissà
se sarà ritrovata. Sento già freddo mentre sistemo le valigie e le borse nel
taxi, mentre osservo il tassametro e le luci della città in piena notte a Roma
e quando la guardo, vedo che anche Lei ha abbassato le difese e sta sognando di
essere altrove. Poverina, c’è ancora da andare a prendere il treno, poi tre o
quattro ore e ancora salire nella nostra macchina e arrivare a casa che sarà
giorno e stenderci lungo qualsiasi cosa che sia morbida e grande abbastanza da
contenerci. Senza contare la mia decisione.
Quand’è che sono diventato quello che sono.
Nella sala da concerto l’attesa sta diventando snervante, è
passata già mezz’ora e l’orchestra ancora non è entrata, la campanella ha già
suonato tre volte nell’indifferenza generale, si è mescolata al brusio
compiaciuto, agli smoking e agli abiti da sera, ai gioielli e ai cellulari che
non si spengono più, ai loro display che vivono di luce propria, tanti fuochi
fatui a illuderci e a infonderci sicurezza.
Come al solito non so niente di quello che andremo a
sentire, sono anni che l’accompagno a questi eventi, anni che mi annoio e mi
sforzo di apprezzare, senza risultati: io questa musica non la sopporto, che
sia classica, rinascimentale, barocca, contemporanea, dodecafonica atonale
seriale spettrale non fa differenza, e non lo so il motivo, non la capisco, non
mi entra nella testa, non è per me, che sia un’orchestra o un pianoforte solo,
provo uno strazio di cui a volte mi vergogno ma che è puntuale al gesto del
direttore d’orchestra che inizia a muovere la sua bacchetta, parte la musica e
parte l’incantesimo contro di me, obbligato alla poltrona ad essere trafitto da
ogni movimento d’arco o fiato emesso, come se ogni musicista fosse d’accordo
sulla mia punizione, come un plotone d’esecuzione. E poi arriva anche Sergio,
uno degli ultimi amici che mi è rimasto, sempre in ritardo, con l’aria
trafelata di chi ha appena fatto chissà cosa, comunque molto più importante di
un appuntamento o di una serata fuori, ti può spingere ad un disprezzo tale da
volerlo morto, si butta sopra il suo posto e mi abbraccia con uno slancio che
mi infastidisce all’istante, poi saluta Lei dandomi una gomitata sul costato e
strusciando i suoi capelli che sanno di
fumo contro la mia faccia. Non resisto, mi alzo e dico di dover andare in
bagno, non chiedo neanche scusa a quelli che faccio alzare per uscire dalla mia
fila, ma poi non mi dirigo dove ho detto, esco dal teatro, non mi importa che
stia piovendo ancora più forte di quando siamo entrati, comincio a camminare
come se fossi sicuro della mia destinazione e invece vado a casaccio, giro per
vicoli che non conosco e metto i piedi ormai fradici in ogni pozzanghera che
incontro, sento di essere ormai zuppo dalla testa ai piedi e trovo finalmente
un bar in cui entrare. L’ingresso è da straniero che irrompe nel saloon in una
notte da lupi, senza però spolverino fradicio e soprattutto senza pistole e
cinturone, ad aver paura e imbarazzo sono io, pure se nel locale sono
praticamente solo. C’è il barista, c’è un televisore accesso alla sua destra in
alto e ci sono due clienti, vecchi, che guardano una partita di calcio,
finalmente qualcosa che mi piace. Chiedo se fanno anche da mangiare, l’uomo
dietro al bancone fa un cenno con la testa verso le pizzette e i panini
esposti. Mi dice che sono freddi, dico che non importa, che me ne dia un paio,
tonno e pomodori, e prosciutto e mozzarella, e poi una birra. La birra me la
devo prendere da solo mi dice, la macchinetta che la mesce non funziona, mi dà
l’apribottiglie e mi indica il frigo che sta affianco all’entrata. La prendo e
pago, mi siedo al tavolo accanto a quello dei due vecchi, dopo cinque minuti
che mastico capisco che è un’altra partita del cazzo di questo campionato di
merda, piacevolmente sorpreso di questi miei pensieri volgari, sono in ottima
compagnia tra l’altro, uno dei due vecchietti ripete a ogni fischio
dell’arbitro: “’sto cornuto!”, l’altro invece sta zitto, ma riesco a sentire
ugualmente un fischio, un sibilo, qualcosa che gli esce dalla bocca, qualcosa
che lo rende pietoso e inutile. Poi di birre me ne scolo altre quattro, tutte
prima che la partita finisca, e mi rimetto in strada con le idee confuse e
un’ansia mista al rigurgito della cena. Quando sono a casa, La trovo
addormentata in salotto, in una posizione sicuramente scomoda mezza distesa sul
divano, con una coperta che le è già scivolata via e le lascia le gambe a
prendere freddo. Mi avvicino e il suo trucco, sempre leggero, è chiaramente colato lungo le guance
attraverso le sue lacrime, io mi siedo per terra, appoggio la mia testa un poco
sotto la sua, mi sento un verme, adesso sono io a piangere e a macchiare la
pelle del divano con le mie lacrime indegne, false, escono per inerzia,
scacciate dal mio corpo che vuole restare vuoto, assente.
Non mi ritrovo in questo, non cerco spiegazioni e non voglio
spiegarmelo, il mio gesto non ha bisogno di nessuno, di niente. Quello che mi
resta da fare è andarmene perché sono questo, ho esaurito le riserve di
energia, o le ho smarrite, non importa, e non sto cercando neanche altro, non
sto andando in cerca del mistero, dell’autentico o dell’aldilà, mi rimane solo
un’idea di futuro ed è quella di finirla al più presto, da solo e senza
possibilità di essere trovato, di essere disturbato, sento quest’estraneità
sulla pelle, mi sento di troppo. E certo che la mia solitudine è straziante e
mi appassisco e sono pieno di dubbi, chi è che se ne va con il sorriso in
faccia?
Ma non è solo avendo a che fare con dei fallimenti che si
perde la voglia di vivere, che siano fallimenti materiali o dettati dalla
vergogna, dalla mancanza di autostima, da una fragilità interiore che vediamo
fare a pezzi dagli sguardi degli altri, anche se nessuno ci ha mai rimproverato
di non essere adeguati, non è solo da questo che nasce un’idea del genere. E
non nasce all’improvviso, non lo ritrovo il momento che mi ha guastato, il
fatto che mi ha spinto verso un’altra direzione.
Sono in un treno, il vagone che mi ospita è vuoto, mi
assomiglia, ha una parte viva all’interno eppure non conta. L’incedere del
treno è lento, pare che stia salendo, dai finestrini scorgo un immenso bianco
disturbato dai tralicci dell’elettricità e da qualche volo isolato d’uccello.
Allora mi spingo meglio fino a schiacciare il viso contro il vetro per cercare
un particolare, uno qualsiasi su cui fissare lo sguardo, approfittare di questa
lentezza per ritrovare un tratto familiare, una testimonianza d’umanità, una
costruzione abbandonata. Adesso che sono abbastanza lontano da tutto, adesso
che avverto uno spazio rassicurante posso accettare la nostalgia di ieri, sono
sicuro che quando scenderò da qui le gambe non mi cederanno.
Così avanzo, senza perdere tempo, muovo i miei passi in un
ambiente inaspettatamente calmo, la neve mi ostacola ma non mi trattiene, sono
stanco e sbuffo, così poco abituato a muovermi all’aperto da non ricordarmi
l’ultima uscita, ed è l’unico rimpianto, che mi sono sempre mosso poco, il meno
possibile, ho sempre preferito un qualsiasi mezzo di trasporto alle mie
gambe, però avanzo. Alzo lo sguardo per
controllare la via, ma è inutile in effetti, non c’è nulla contro cui andare a
sbattere e la strada non finisce, mi asciugo il sudore che ho sulla fronte e
finisco per perdere l’equilibrio di
fronte a tale vastità, colori indefiniti, tra il bianco e il grigio; la fatica
aumenta, il suono prodotto dal mio incedere e il cuore che si ostina ad
aumentare la sua corsa, ho dolore alle orecchie e in bocca avverto uno
sgradevole sapore di sangue, i miei denti adesso sono di troppo. Il livello
della neve è aumentato e non me ne sono accorto, ormai sprofondo quasi fino alla
vita, mi posso fermare, mi lascio cadere in avanti e affondo le braccia e la
testa, urlo per il ghiaccio che passa attraverso i miei abiti lungo il collo e
la schiena, urlo dapprima mentre sono ancora immerso e poi urlo al cielo, urlo
fino a che la gola non chiede riposo. Respiro e piango, ansimo per tutto, la
fatica e il dolore, cos’è che mi lascio dietro? Quanti pensieri che
s’azzuffano, ognuno a reclamare attenzione, ma sono troppe le cose che uno
abbandona, sono così tante che le lacrime non bastano a piangerle tutte, e poi
infine le persone a me care, quanto sangue dovrebbe uscirmi adesso, quanta neve
dovrei macchiare per provare ciò che sto perdendo, e non lo voglio ammettere, e
non lo avrei ammesso di fronte a nessuno, ma mi mancano, non lo sa nessuno, non
lo può sapere questa neve, non lo potrà diffondere questo vento che mi schiaffeggia,
è tale la distanza che le mie urla adesso non arrivano più da nessuna parte, la
mia voce ha perso ogni suo senso, è sola con me a rispondermi e a urlarmi
contro. La distanza è pari alla misura
che era colma, ma se le metto a confronto non c’è dubbio che la prima fa più
male, dalla prima non guarirò più e adesso me accorgo, ho ancora tempo per
pensarci e per far crescere la disperazione, mi rimane tempo spero per
impazzire, per dare sfogo a questo lamento che sta salendo, il mio spirito
devastato in preda all’isteria e le mie membra congelate, che si preparano
all’assideramento, finalmente alla mia morte, avverto il contatto tra la mia
pelle e il mondo, tolgo ogni oggetto inutile, ogni vestito che mi separa dal
resto e mi preparo. Non sono in grado di andare oltre, mentre tremo non mi
viene più nulla, quand’è che finisce? Quanto manca, quanti istanti di
sofferenza mi separano dall’andare a fondo, dal poggiarmi a terra ricoperto di neve nel mio letto nuovo, calmo
e immobile, immenso e tutto per me, disponibile ad accarezzarmi, a farmi
sentire protetto e in salvo, a casa.
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