martedì 15 marzo 2011

I FILM CHE POTREBBERO NON FINIRE MAI

(Sempre a cura dell'ottimo Stefano, ma c'è bisogno di dirvelo?)

I FILM CHE POTREBBERO NON FINIRE MAI


“il mondo è terribilmente noioso”: STALKER – URSS, GERMANIA EST, 163’. Regia di Andrej Tarkovskij. “la zona” è ciò che resta di un villaggio sconvolto dalla caduta di un meteorite. Nessun superstite e un edificio fatiscente invaso dall’acqua, in cui le leggi della fisica paiono differenti da quelle del mondo reale e una stanza in cui ogni desiderio può essere esaudito. Chi si avvicina alla zona non fa ritorno così è circondata dal filo spinato e chi prova ad andarci finisce in galera. Il pericolo è che qualsiasi mente malvagia possa accedere alla stanza magica. Tre uomini si mettono in cammino verso la zona. Uno di essi è uno “stalker”, una guida, l’unico in grado di attraversare la zona e di condurre chiunque alla stanza. La zona può uccidere, nella zona ci si smarrisce, non si può tornare indietro seguendo la strada percorsa. Lo stalker è già stato in carcere, ma lascia lo stesso la moglie e la figlioletta nata “mutante” per tornare alla zona, perché non può farne a meno, perché per lui ogni posto è una prigione, tranne la zona, e perché crede fermamente nel prodigio della stanza, ma non vi è mai entrato per timore e perché il suo mentore, chiamato “porcospino”, dopo averla visitata si suicidò. Gli altri due uomini sono un professore che finge la parte di un uomo non realizzato professionalmente ma che in realtà vuole far saltare in aria la zona con una bomba, e uno scrittore tormentato che odia scrivere. Giunti alla soglia della stanza il professore rinuncerà al suo proposito, lo scrittore comprenderà che solo i desideri più innati si realizzano e dunque sentendosi nel profondo un uomo disgustoso rinuncerà ad entrarci. Questo è un film straordinario ma tutto sommato la trama non c’entra, ho provato a riassumerla solo per comodità. Tutta la parte, un’ora abbondante, degli uomini che camminano nell’erba verso la zona, guidati dallo stalker che è convinto che ogni passo può costare caro e sceglie la direzione con dei lanci casuali di dadi ( quelli dei bulloni ) a cui lega un fazzoletto bianco è un gioco. I riferimenti ad una fantomatica entità che osserva ed ha potere di vita o di morte sono un gioco. Anche la scena finale, inquietante e da brividi è un gioco. È un gioco che prepara il terreno al conflitto che seguirà fra gli uomini e alle loro riflessioni una volta che saranno al centro della zona, ad un passo dalla stanza dei prodigi. È un film che si prende il tempo che vuole, che mette in scena una scampagnata lunghissima e dei discorsi come si fanno solo tra amici ubriachi appena fuori dal bar mentre si torna a casa, che pare che stai a discutere dei massimi sistemi e forse può anche essere. Il regista poi aggiunge una forza scenica attraverso i colori e i cambi di luce. Gli ambienti interni che allestisce rimangono impressi. In due momenti ho avuto la pelle d’oca. Un’inquadratura immensa con le ciminiere sullo sfondo, un lago ghiacciato, la neve e la famiglia dello stalker ( più un cane nero ) che si incammina forse ancora verso la zona e la scena finale menzionata sopra. Voto: azzardo che è un 2001: a space odyssey intimista, per gli insulti c’è lo spazio commenti J


“dov’è la nazione?”: MELANCHOLIA – FILIPPINE, 450’. Regia di Lav Diaz.
Si comincia pianissimo, per abituare il passo, regolare i battiti e predisporsi con pazienza. Un villaggio è il teatro di un’immersione nello squallore. Una prostituta e un magnaccia che discutono della luce e del buio, che non fa paura perché puoi sederti vicino al presidente delle Filippine e non accorgertene, come puoi non accorgerti dello squallore. La prostituta è una donna che vuole capire perché la figlia si prostituisce e allora per una settimana anche lei. Il magnaccia è un suo amico e il loro un esperimento. Poi le cose si fanno più chiare e si sommano gli elementi. Dal villaggio si passa alla città e si esce dall’esperimento, si annotano le informazioni, ci si comincia a fare un’idea di cosa si stia guardando: un film che sappiamo durare più di 7 ( sette ) ore, in bianco e nero, girato in larga parte con camera fissa, che arriva dalle Filippine e che se ne frega di proporre qualsiasi cosa assomigli a un film come uno se lo aspetta. La donna si chiama Alberta Munoz e il suo uomo è un desaparecido, così come la figlia di cui parla è un’orfana di desaparecidos. Alberta Munoz si prende cura di lei. Si ritrovano lungo la strada, si abbracciano e trascorrono del tempo in riva al mare. Poi si ritorna nella foresta, tre uomini, uno di questi è l’uomo di Alberta Munoz, le scrive lettere che poi getta nel fiume, lettere in cui prende atto che la maestosa bellezza dell’isola non aggiunge poesia romantica, non spiega la follia del suo paese, non cura la sua tristezza. È una parte estenuante, confesso di aver messo mano al telecomando per mandare avanti. In mezzo ci sono passaggi documentaristici, riprese amatoriali, un concerto ripreso per strada, le prove di un gruppo che improvvisa rumori con chitarre elettriche tastiera e sax, scena lunga 7-8 minuti, momenti di teatro. Poi il film si interrompe, non ho capito se l’ho registrato male, o c’ho registrato sopra inavvertitamente, comunque più o meno stava finendo e in fondo non cambia molto. Voto: non lo so. Per correttezza dei link che dicono meglio: 

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