mercoledì 13 giugno 2012

VISIONI ESTATICHE APPROSSIMATIVE


SAN GIROLAMO – Bra 1999, 78’. Regia di Julio Bressane.
A un certo punto compare un leone, che se uno conosce la storia se l’aspetta, ma io no. È una scena notevole: nel deserto, il leone disteso e sofferente, il santo che lo guarisce. C’è una lunga parte sull’importanza di tradurre correttamente dall’ebraico per avere un testo solido su cui fondare il cristianesimo. Per il santo, mentre lo spiega immagino a delle novizie, non bisogna tradurre parola per parola, ma cogliere il senso, rispettando il carattere di ogni lingua, cercando armonia ed eleganza. Molte scene riescono ad essere inquietanti e vagamente simboliche, in una ho persino riconosciuto un quadro, il San Girolamo di Caravaggio ( fonte wikipedia ). Comunque, se vi interessano le vite dei santi la rubrica su Il Post di Leonardo Tondelli fa per voi. Consiglio. Ricordo personale: nel film in una scena c’è la musica di Saint Saens, Il Cigno. Una volta ero a teatro e c’era proprio una rappresentazione del carnevale degli animali. Oltre ai musicisti c’erano delle ballerine. Il brano de Il Cigno vedeva in scena una sola ballerina e una figura cartonata, una sorta di traguardo da raggiungere, tipo chessò, se fosse stato un ragazzino col pallone, un calciatore professionista come sagoma. La ballerina era inginocchiata, indossava una felpa, aveva il cappuccio tirato sulla testa. Partì la musica e la ballerina cominciò a muoversi lentamente, si alzò e si tolse il cappuccio. Indossava delle cuffiette per la musica. Fu meraviglioso. La ballerina cominciò a danzare, ma si capiva che danzava al ritmo della musica ascoltata nelle cuffiette, probabilmente musica dance. Così la musica che ascoltava il pubblico era struggente, ma i gesti della ballerina riuscivano a suggerire ugualmente  i battiti della dance, e il contrasto mi regalò allo stesso tempo voglia di piangere e gioia nel vedere rappresentato il sogno di una ragazza che si esercita con la musica che ama.

Ma arriviamo al nocciolo del post, ovvero la mia decisione di vedere Death in the land of encantos di Lav Diaz, film filippino della durata di circa 9 ( nove ) ore, ovviamente in più riprese. Film premiato per la sezione orizzonti a Venezia ( le malelingue dicono che lo premiarono perché speravano che così si sarebbe accontentato e non avrebbe fatto più film del genere ). Film che dopo due iniziali inquadrature in bianco e nero, vede l’apparizione di una donna nuda che dorme. Poi ne dirò di più, una volta terminata la visione.

Insomma, parola per parola si diceva, oppure fotogramma per fotogramma, o ancora nota per nota. Pensiamo ad Einstein on the beach di Philip Glass, un’opera di circa 5 ore concepita per essere ascoltata in uno spazio che consentisse al pubblico di girovagare, cambiare ambiente, addormentarsi, tentare approcci eccetera. Dunque non la situazione “classica” da concerto. Che poi neanche ai tempi di Mozart stavano a sentire il concerto per tutto il tempo, in genere si chiacchierava, pettegolezzi come al solito; si mangiucchiava, si tentavano approcci, come al solito. L’acustica era quel che era, il pubblico di ricchi stronzi pure. Si aspettava il momento clou per l’applauso e il resto era tappezzeria. Oppure ci si esaltava per i virtuosismi degli esecutori. Niente a che vedere con l’idea che di solito si ha di un concerto di musica classica. Cioè, oggi è così, una situazione che richiede molta compostezza, non è sempre stato così. È scontato in realtà, ma quando l’ho appreso mi ha stupito. Mi basta poco in effetti. Tornando al film, non capisco se è un film da vedersi di seguito, magari in più riprese, oppure di vederlo come un’opera che esprime un qualcosa che si coglie in vari punti, che non scaturisce dal racconto lineare. Quando dico ai miei amici che vedo questi film mi prendono per pazzo, letteralmente. Non fanno neanche la battuta “ma un porno invece?”. Però in fondo che cambia tra vedere questo di 9 ore o tre quattro film più corti? Certo, il film di Lav Diaz è intrinsecamente noioso per la maggior parte degli esseri umani, me compreso, e a dispetto della fatica nel leggere i grandi romanzi che però ti ripagano in qualche modo, è difficile che ciò accada. Però ad esempio quando stiamo al mare ci abbandoniamo nel fissare l’orizzonte per un certo periodo di tempo e forse ci annoiamo, eppure ci piace lo stesso. Per cui in qualche modo questa lunga durata dovrebbe servire a fruire dell’opera.

martedì 12 giugno 2012

PAGINE SPARSE

Da L'errore di Glover di Nick Laird

Piccola playlist possibile ( contenuta nel testo ): Iceblink dei Cocteau Twins; Sea Pictures di Edward Elgar. Ci sarebbe pure Agio di David Jermann, ma forse se lo è inventato l'autore.


“Una gelida sera di novembre andarono tutti e tre al Globe a vedere Otello e, dopo aver fermato un taxi per Ruth sul Blackfriars Bridge, i due coinquilini cominciarono la scarpinata verso il distretto del Borough. Le strade erano quasi deserte, pulite dal freddo, e i marciapiedi ghiacciati scintillavano come quarzo. La rappresentazione non era stata un granché e David cominciò a dire la sua. Dopo una pausa, sulla scia di un paragone tra il regista e una mammana, Glover disse: << Che cosa provi davvero per Ruth? Sinceramente >>. << Mi piace davvero>>, disse David, facendo il verso all’enfasi di Glover. << Perché , a te no?>> << Certo, ma mi chiedevo se pensavi di passare all’azione>>. David capì subito il senso delle sue parole, ma c’era qualcosa nel tono – una certa irritazione – che lo offese. Glover cercava sempre di spingerlo verso il mondo, gli proponeva di iscriversi insieme a qualche sito di incontri, diceva che dovevano rispondere a qualche annuncio sui giornali, lo incoraggiava ad approcciare le ragazze nei pub. Pensava che Glover lo vedesse come una cosa inerte, che aveva bisogno di una spinta alle spalle per cominciare a rotolare, ma David sapeva bene cosa significava essere rifiutati. Riusciva a procedere solo seguendo il proprio ritmo. <<Sai, siamo vecchi amici. Vecchissimi amici>>. Un pacchetto di patatine raspava sul marciapiede, mosso dal vento, e Glover gli diede un calcio. Il pacchetto si rigirò sulla sua scarpa da ginnastica e andò a posarsi di nuovo a terra, a faccia in giù. <<Direi che il punto è se ti piace fisicamente o no>>. David si innervosì di nuovo e sbuffò impaziente. <<Lo vede chiunque che è una bella donna>>. <<Sì, direi di sì>>. David non aggiunse altro. Cosa gliene importava, a Glover? Erano arrivati davanti ai gradini di casa e la conversazione fu parcheggiata lì, accanto ai bidoni dell’immondizia e a quello della raccolta differenziata, nel quale qualcuno aveva buttato un kebab mangiato a metà.” Pag. 53

“Sabato, l’ultimo dell’anno, David affrontò l’orrore del suo armadio. Per prima cosa escluse ciò che indossava per scuola – pantaloni di velluto a coste e di cotone cachi, maglie a girocollo – ed esaminò il resto. Se ciò che indossiamo definisce quello che siamo, David dedusse che lui doveva essere o un boscaiolo ( tre camicie a quadri ) oppure un becchino sciatto ( un singolo completo nero con una macchia incrostata su una manica ). Si piazzò davanti allo specchio dell’armadio con addosso un paio di boxer a quadretti, e poi andò in bagno e salì esitante sulla bilancia. L’ago oscillò e tremò insieme al suo cuore. Novantadue chili. Un tempo – quando si era iscritto al Goldsmiths – pesava settantasette chili e mezzo. E per dirla con sua madre, un tempo era stato tre chili e tre di gioia e tormento.” Pag. 124

domenica 10 giugno 2012

DENTE live @ Darsena ( Castiglione del lago, PG )



Dente scivola lungo un piano dolcemente inclinato alcoolicamente trattato spensieratezza incrinata raramente dal ciuffetto maudit dai moscerini più accaniti delle giovani fan e dei ragazzi appresso che pure loro cantavano le parole che mi sono perso quasi tutte tranne quelle quattro che conoscevo anch’io “non è stato il destino ad unirvi ma l’ADSL” “Comprati un mazzo di fiori…che poi ti do i soldi” scorre così anche se fra una canzone e l’altra ci mette battute così brutte che ti chiedi se non le dica apposta scorre aiutato da una band che rinforza i rari crescendo e che mette la base dondoleggiante che arriva l’estate il bicchiere in mano che fai non ti muovi al ritmo?

giovedì 7 giugno 2012

IL MONDO NUOVO ( ASPETTANDO IL 3D )

COSMOPOLIS – 2012, 108’. Regia di David Cronenberg.
Beh, sarebbe da rivederlo per capirlo meglio, per riascoltare alcuni dialoghi, e tutto sommato perché un suo fascino ce l’ha eccome. L’impressione è che forse sia dovuto alla situazione narrata più che alla sua riuscita, ma poi non è detto che sia così importante. Un giovane ricchissimo ( società finanziaria ) e ossessionato dal controllo, delle informazioni, del suo corpo, si sposta praticamente sempre all’interno di una limousine insonorizzata e blindata in una giornata che vorrebbe essere cruciale per le sorti del mondo, c’è infatti una manifestazione contro il capitalismo, c’è il presidente in pericolo, ci sono attentati a membri delle organizzazioni monetarie; ma è solo un’altra giornata. Tutto ciò diventa lo spunto per parlare di una società votata all’insensatezza, rappresentata dal protagonista. Ora, io onestamente di questi discorsi comincio un po’ a rompermi. Nel senso che da una parte ci sono i problemi che scaturiscono da questo modello economico e sono concreti e andrebbero analizzati con cura; dall’altra ci sono le possibili satire o analisi sulla società che vorrei fossero presi più seriamente. Perché io non vedo la connessione tra l’idea ad esempio che le transazioni finanziarie sono prive di una logica accettabile e hanno il potere di determinare la povertà o la ricchezza di troppa gente e l’idea che questo porti ad una società privata di significati ed emozioni, disciolta in serie di bit, rappresentata nel suo culmine edonista da un giovanotto come quello del film. Oppure tra l’idea che la frammentazione e l’organizzazione temporale abbia inciso a tal punto sulla società ( un mio amico mi ha suggerito che il fatto che le persone possano vivere in una nazione in cui vige la stessa ora per tutti è alla base del concetto di comunità immaginaria propria del nazionalismo, per cui anche se in realtà le persone non si conoscono effettivamente tutte fra di loro, possono ugualmente sentirsi parte di una comunità attraverso vari simboli e grazie anche ad un tempo uguale per tutti, laddove magari per la società contadina, la simultaneità veniva esperita solo nei tempi di lavoro, scanditi piuttosto dalla natura ) e quello che avviene sullo schermo. Il protagonista è un rappresentante del capitalismo? No, è un beneficiario. E di per sé non dice nulla sullo stato delle cose. Però è affascinante, perché è ben recitato, e perché fa cose affascinanti. Non credo che possa dire nulla su di noi. Mi pare insomma di aver visto un’opera confusa, che pesca da situazioni esistenti e in corso di dibattito per tenere assieme il tutto. Per quanto poi devo ammettere che è un film che dà la possibilità di ragionare in molte direzioni. Ad esempio mentre lo vedevo, ascoltando il protagonista che parlava del bisogno di scopare mi è venuto in mente il finale di Eyes Wide Shut, solo che quest’ultimo è un film che oltre ad una solida base psicologica restituisce con le immagini e con i suoni qualcosa di grandioso e allo stesso tempo di vero. Cosmopolis risulta oppresso in qualche modo, con un continuo sentore di qualcosa di brutto che deve accadere ma con troppi tempi morti, ma forse è proprio questo ciò che vuole esprimere. Persone che parlano fra di loro senza davvero dirsi nulla. Che è però ciò che non sopporto di un’opera che vuole analizzare la società o comunque farne delle fotografie. Come nella scena di un rave messo in atto in un teatro, per parlare della sofferenza dei giovani, così belli mentre danzano eppure fatti di qualsiasi cosa. Che vuol dire? A parte il fatto che la maggior parte dei giovani di un certo mondo non si droga e vive come può, soffrendo a volte e gioendo altre. Tutto per un taglio di capelli, simmetria-asimmetria, flusso finanziario che non risponde ad antiche idee, nessuna armonia, perdita di senso, violenza improvvisa. Ecco, mi ha lasciato indifferente. O forse ci ripenso e cancello tutto. Per concludere, direi che è da vedere e che non mi sento propriamente a mio agio ( e in grado ) nello scriverci su dopo una sola visione e considerando la vastità di ciò di cui vorrei provare a scrivere.

venerdì 25 maggio 2012

...E FORZA FOGGIA!



Mi ricordo che ero milanista, mi ricordo di un disegno in cui c’erano due o tre giocatori del Milan, uno era Gullit, e mi ricordo che le aree di rigore le avevo disegnate male, non tanto imprecise, ma una fuori dall’altra, prima l’area grande, poi quella piccola. Poi mi ricordo che cominciai a tifare Foggia. Vero è che non avevo neanche dieci anni, e che le maglie di Milan e Foggia avevano gli stessi colori, ma a un certo punto tifai Foggia. Poi tifai pure Paris Saint-Germain. Fui preso anch’io dal fascino per Zeman, più che per il gioco che allora non sapevo riconoscere, per il concetto, quello ce l’avevo bene in mente, ovvero l’idea che si giochi per fare gol, e dunque si attacca di continuo, che per un bambino è una maniera spontanea di vedere le cose; senza furbizie, scorrettezze, falli tattici, rispettando le regole.
Così, dato che quest’anno Zeman ha allenato il Pescara, promosso in serie A, ho festeggiato comprando questo cofanetto, un libro e due dvd, firmato da Giuseppe Sansonna. Si ripercorre la storia di quel Foggia, primi anni ’90, capace di arrivare in serie A e parallelamente il percorso di quello di pochi anni fa in lega pro, la vecchia serie C1. Storie di allenamenti durissimi, partite a carte, sigarette e gol. Ogni tanto affiorano i paesaggi sofferti della città, che misti ai silenzi di Zeman, ne fanno un’opera à la cinico tv. C’è anche un pezzetto di Terni, nelle riprese di una partita in cui per una volta allo stadio c’ero anch’io, e in una bella pagina nel libro, che poi è bello tutto, soprattutto quando racconta i giovani del Foggia attuale; Romagnoli, che prima di scendere in campo ripassa Locke in vista di un esame; Kone, che parla dei suoi connazionali che soffrono nei campi dove raccolgono la frutta, e che la sofferenza provano a tenersela dentro.
Insomma, non solo calcio. Per cui, ho ripescato anche Un’ultima stagione da esordienti, di Cristiano Cavina ( ma c’è pure È finito il nostro carnevale, di Fabio Stassi, che porta lo sguardo indietro nel tempo e su ben più vasti orizzonti ), altro imperdibile per chi da ragazzino solcava i campetti e trascorreva la vita appresso a un pallone, prima di accorgersi dell’altro mondo, ben più imponderabile e affascinante, quello dei motori. :-)





martedì 8 maggio 2012

Piccole storie di provincia senza parenesi


La macchina si spense proprio mentre ero fermo lungo la salita di una stradina che faccio sempre per tornare a casa dalle prove. Mezzanotte passata e un’altra volta fermo nonostante fosse la terza volta in un mese che mio padre la portava dal meccanico. Il bello è che mi ero fermato per offrire aiuto ad un tizio che mi sembrava in difficoltà. Avevo giusto visto un’ombra nella notte e poi due macchine nel senso contrario al mio che gli si erano affiancate, anche loro per vedere come stava. Sembrava che fosse caduto per terra, per il modo in cui reggeva la bici, ma non lo so poi se fosse caduto o no, stava comunque cercando qualcosa per terra. Capii molto in fretta che era ubriaco e poco dopo che era un po’ fatto. A quel punto gli dissi che potevo accompagnarlo io, che la bici la poteva mettere nel portabagagli. A dire il vero non ero molto convinto che la macchina sarebbe ripartita, ma anche lui poi chissà dove andava. Mi disse “L., abito a L.”. Mai sentito. Gli chiesi “ma sta giù o su?”, per sapere se dovevamo tornare indietro o proseguire per la mia direzione. Non era molto sicuro neanche lui, comunque disse su. La macchina poi partì, feci un po’ di discesa all’indietro per provare a partire in pianura. Per fortuna L. è un paesino distante una ventina di minuti da dove abito, per quanto io continuassi a nutrire dei dubbi circa l’efficacia della memoria del tizio, un giovane albanese che vive con i suoi fratelli, anche se in case diverse da quanto ho capito, e che ogni tanto riesce a lavorare come muratore, almeno da quando non spaccia, un precario anche lui in fondo. I suoi fratelli sono tutti sistemati, matrimonio e figli vari, e lui mi sa che è la famosa pecora nera della famiglia, c’ha provato anche lui a sposarsi ma il padre di lei non voleva. L’aspetto triste della vicenda è che il giovane era sceso in città per l’appuntamento settimanale con il SerT, per la dose di metadone, e che però aveva perso l’unico pullman che poteva riportarlo a casa, così si era procurato una bicicletta, un bel po’ di vino e tanta pazienza, considerando che da T. ( la città ) a L. in macchina più di mezz’ora ci vuole, che la salita è tanta e che se l’ho trovato di notte, tanta strada non doveva poi averne fatta. Senza contare il suo stato. Comunque a L. ci arrivammo, e G., prima di andarsene ci tenne moltissimo ad avere il mio numero di telefono, mi chiese se volevo delle scarpe, dei vestiti, mi chiese se prendevo qualcosa anch’io e fu contento del mio no, infine trovò il tempo per dirmi che gli albanesi di Tirana e Durazzo sono ok, ma già se ti sposti è meglio lasciarli perdere, gli dai un passaggio e magari girano con la roba addosso e poi ti fermano e ti mettono nei casini. Ecco, all’una di notte passata, sentirlo ricordarsi dei pregiudizi uguali penso in tutto il mondo, in mezzo a una giornata del genere, fu proprio buffo.


sabato 5 maggio 2012

IT'S HORROR TIME



“Che giornata di merda! Che paese di merda!”. RABIES ( Kalevet ) - ISR 2010, 90’. Regia di Aharon Keshales e Navot Papushado. Pensavo di trovarmi di fronte ad un film senza pretese ed invece ho visto un filmettino coi fiocchi, un survival horror divertente e curioso, con momenti spietati ed altri commoventi. Si parte con una coppia, fratello e sorella, amanti, rinchiusi in una gabbia sotterranea nei pressi di un bosco, tra l’altro pieno di mine, siamo in Israele, da un tizio che nel film è il killer. Poi arriverà un guardiacaccia con il suo cane, un gruppo di ragazzi che hanno smarrito la retta via ( si sono persi ), e due poliziotti poco affidabili. Il resto pare scritto da Murphy, quello per cui se una cosa può andare storta ci andrà, e insomma senza stare troppo a rivelare, è un film che diverte più della media dei film del genere, lasciando anche spazio ad alcuni personaggi e alle loro vicende private. I sottotitoli si trovano su opensubtitles.org, il torrent dal vostro torrentista di fiducia.




HOBO WITH A SHOTGUN – USA\CAN 2011, 86’. Regia di Jason Eisener.
Quest’altro invece è un filmaccio che può piacere ai cultori dei filmacci. In una città in preda ad un boss psicopatico che organizza spettacoli a base di teste mozzate, arriva un vagabondo che sogna di possedere una falciatrice per sistemare i prati del vicinato e vivere così in pace. Nel frattempo una ragazza costretta a prostituirsi complicherà le cose. Il film è una sorta di fumetto sgangherato, splatter a volontà, personaggi deliranti che animano una società allo sbando che non aspetta altro che di essere redenta dal nostro vagabondo a colpi di fucile, proud to be american.
Le parti più insopportabili sono dunque quelle in cui parte la musichetta da pubblicità progresso con il nostro uomo che invece dei bastioni di Orione vede le future canaglie da bassifondi in un reparto maternità. Alcune sequenze affascinanti qua e là si trovano pure, con la dovuta pazienza.

martedì 1 maggio 2012

IL MONDO NUOVO ( ASPETTANDO IL 3D )


 
Diaz – don’t clean up this blood. 2012 ITA e pezzi d’Europa per i permessi più agevoli da ottenere, 127’. Regia di Daniele Vicari. Fra i vari pensieri uno è stato quello che “esce Diaz, me lo vado a vedere al cinema che ho proprio voglia, e poi ci faccio una bella recensione”. Un altro è stato, in corso di visione, “certo che avere interesse per un evento a cui non ho partecipato, di cui ho visto un sacco di immagini, terribili e deprimenti, al punto di andare al cinema per sorbirmi lo strazio di quello che non si è visto, così poi ne posso pure parlare, ma insomma tutto ciò a qual senso?”. Fa niente, ognuno c’ha le sue. Il film attanaglia pian piano, poi si può piangere a dirotto o trattenersi, ma c’entra pure la tensione, tra squarci metropolitani, ripartenze à la Elephant ( cioè far vedere la stessa scena con altri punti di vista, ovvero di altri personaggi ), crescendo Hosteliani ( Hostel è un film dell’orrore in cui dei ragazzi vengono torturati, e la macchina da presa scorre lungo le celle in cui avvengono le torture ) e scena finale da liberi tutti. Si potrebbe dire che un altro pregio è che è così forte che nessuno ha voglia del dibattito dopo. Volendo dargli un’inquadrata stilistica o narrativa, fra i pareri vari raccolti in giro c’è chi sostiene che sia troppo incentrato su un fatto particolare da sembrare assurdo, ma in realtà chi lo è andato a vedere probabilmente una certa idea ce l’ha e chi no avrà tutta la voglia di provare ad allargare lo sguardo. C’è una bottiglia vuota che ritorna spesso, al rallentatore, volteggia, lanciata da qualcuno, ritorna come un falso pretesto a tenere i fili del racconto. A me è parso un buon film che aveva un obiettivo ben preciso e l’ha raggiunto, attraverso le immagini anzitutto. È vero che si concentra su un episodio all’interno di tre giornate senza dare conto del perché delle giornate, ma lo sguardo è chiaramente improntato per una visione ampia, per cui il “fatto” è espresso dalla furia cieca ma è chiaramente originato dalla furia lucida e criminale dei piani alti. Lo sconsiglio ovviamente a chi non sopporta la violenza e le umiliazioni sullo schermo. Non è che io ci goda comunque. La musica è di Teho Teardo, e porcaccia, a parte che l’ho riconosciuto dalla prima nota, è bravo, davvero. Crea un impasto drammatico attraverso il registro grave degli archi, con la chitarra mi pare classica a impreziosire il tutto. Scuote e lascia vibrare le corde come si deve, fino all’ultima inquadratura fra i monti, con innegabili e piacevoli echi Morriconiani, che possono fare da tramite per quel cinema impegnato di un tempo e questo tentativo odierno, con rinnovato stile.

 


Black Block. ITA 2011, 76’. Regia di Carlo A. Bachschmidt
Questo documentario offre le testimonianze di alcuni presenti alla Diaz la famosa notte e alla caserma di Bolzaneto poi. È stato trasmesso da rai tre qualche giorno fa. È un utile controcanto, sussurrato e dolente, con un pianoforte sullo sfondo che ricorda quello di Trent Reznor in The social network. Le parole di persone provenienti da varie parti d’Europa ritrovatesi a condividere un trauma, ad elaborarlo, per poter magari essere d’aiuto ad altre persone nella loro situazione. Interviste effettuate all’interno di un edificio che sembra abbandonato, con alcuni oggetti che suggeriscono gli eventi, un po’ nascosti, quasi non ci si fa caso.

Poi: una buona recensione con vari spunti per altri documenti filmici, una pagina per un chiarimento linguistico non richiesto e un saggio interessante. Con alcuni spunti comici tra l’altro, come i regolamenti per le forze dell’ordine in libera uscita. Tempo fa era sconsigliato fare cose come fumare in pubblico, e ci sta; trasportare pacchi voluminosi, mah; bere dalle fontanelle. Poi, alle feste, chiedere di ballare alle donne più trascurate. Applausi.

Bonus track ( visti dal vivo, che vale doppio ).