sabato 18 settembre 2010

Steven Pinker - The Blank Slate - The Modern Denial of Human Nature

STEVEN PINKER
The Blank Slate - The Modern Denial of Human Nature
Penguin Books, 509 pp. £10.99

(ed. italiana “Tabula Rasa - Perché non è vero che gli uomini nascono tutti uguali”, Mondadori, 622 pp., 12.00 euro)

“By unhandcuffing widely shared values from moribund factual dogmas, the rationale for those values can only become clearer” (p. 422)

(Steven Pinker è professore di psicologia ad Harvard, ed ha insegnato psicologia cognitiva al MIT fino al 2003. Prima di mettersi a pubblicare testi “divulgativi” ha pubblicato testi tecnici sulla natura del linguaggio e sull’apprendimento del linguaggio stesso da parte dei bambini)

The Blank Slate, pubblicato per la prima volta nel 2003, è tutto dedicato alla distruzione di tre “miti” filosofici non recenti, ma che nel ventesimo secolo hanno goduto di grande notorietà e utilizzo, e che Pinker considera accomunati (anche se il secondo in fondo non lo è) dal rifiuto dell’idea di “natura umana”, contenuta per Pinker nel nostro patrimonio genetico e modellata dalle forze dell’evoluzione e della selezione naturale.  I tre miti sono quelli della “tabula rasa” (la “blank slate” del titolo, ovvero dell’anti-innatismo assoluto, della costruzione sociale di tutte le competenze, i valori, i talenti, le predisposizioni), del “buon selvaggio” (della costruzione culturale di guerre, contrasti, conflitti, ingiustizie sociali, etc. a fronte di una “naturale bontà” e predisposizione al bene degli esseri umani) e del “fantasma nella macchina” (ovvero dell’anima, e della separazione della volontà e della personalità dal corpo).

Non mi sembravano, prima di leggere il libro, argomenti di grande impatto, e come questioni mi sembravano seppellite da tempo: ma Pinker la pensa diversamente (anche perché si muove in un milieu culturale, quello statunitense, in cui l’utilizzo di queste idee è più estremista, e l’arrivo a conclusioni palesemente cazzare è molto più frequente*) e si sofferma sul loro utilizzo non solo nelle scienze sociali e nell’antropologia (i due esempi più interessanti per me) ma anche nella biologia e nella linguistica, come assiomi: la bontà dei primitivi, la loro relativa “pacificità” in periodi di abbondanza dei beni primari, la natura esclusivamente sociale, sovrapersonale di fenomeni umani come le differenze di genere, il linguaggio, le organizzazioni  e dinamiche politiche (vedi l’assunto di Durkheim per cui le nature individuali non sono altro che materiale indifferenziato che sono i fattori sociali a modellare e trasformare), ma anche la convinzione che il carattere, le credenze, i desideri dei bambini siano del tutto plasmabili e indirizzabili agendo sulla loro educazione (che non ci siano, dunque, tendenze, o talenti o inclinazioni innati), ecc. ecc.

Il libro è un po’ troppo lungo (ma tutt’altro che complicato: tutto si può dire di Pinker tranne che non sia un grande divulgatore) per darne un’immagine compiuta in poche righe, ma basta dire che Pinker cerca di demolire questi tre miti facendo affidamento soprattutto alla teoria evoluzionistica e cercando di mostrare come una mente con un certo numero di innatismi sia una ovvia conseguenza dell’adattamento evolutivo che ha dato forma alla nostra specie.  Fare i conti con questi innatismi non può che fare del bene a tutta una serie di discussioni eminentemente politiche: dalle politiche sull’educazione a quelle sull’integrazione, dalle politiche contro la violenza sulle donne alla discussione sull’effetto della violenza nei media, dalla possibilità di riuscita di una qualsiasi rivoluzione di stampo comunista alla credenza in un mercato che sia in grado di produrre il meglio senza un intervento statale.
Il fine di Pinker in questo libro è infatti non tanto quello di dare il via a una discussione scientifica sull’innatismo o meno (è una questione che discute ma che in realtà considera chiusa, e in questo risulta anche molto convincente) ma quello di creare la possibilità di una discussione politica che tenga conto di questa natura per produrre il massimo grado di felicità e giustizia possibile, una discussione non rivolta ad un ideale essere umano ma a quello fattuale, che è definito da una natura umana solo lentissimamente modificabile (tra l’altro: secondo Pinker, la nostra morale è un sottoprodotto evolutivo che ci rende più in grado di sopravvivere in gruppo e quindi più evoluzionisticamente adatti, ma questo non vuol dire che non abbia valore: semplicemente, non l’ha creata Dio o chi per lui - ma è un’argomentazione dura da sostenere, e difficilissima da presentare, ed è forse anche l’unica in cui sono totalmente d’accordo con lui). (Lo scopo di PInker non risulta pienamente comprensibile se non si conoscono le polemiche  scoppiate negli USA negli ultimi trent’anni ogni volta che qualcuno ha provato a inserire le conoscenze sulla genetica e sulla biologia all’interno delle scienze sociali o dell’antropologia: polemiche che di solito hanno nell’epiteto “nazista” rivolto allo studioso di turno il loro momento più soft).

Non tutto va per il verso giusto: Pinker risulta molto convincente sull’importanza di arrivare ad accettare l’influenza della biologia evoluzionistica per quanto riguarda ogni aspetto della nostra vita, e non soltanto per il pollice opponibile o la stazione eretta, ma anche nelle sue discussioni sulla natura della violenza (il capitolo sullo stupro è uno dei più convincenti, ma è anche quello su cui sono sicuro avrà ricevuto più critiche), ma è decisamente più a disagio in altre occasioni: per esempio, quando si ritrova a parlare del razionalità o dell’ ”evolutionary fitness” del sistema della pena  all’interno delle società umane, o peggio ancora quando si imbarca (senza alcun motivo: è un discorso che Pinker dovrebbe considerare privo di senso, se fosse conseguente con le sue premesse) nel discorso sul libero arbitrio o in quello (su cui Pinker vorrebbe avere delle risposte definitive ma è evidente che non le ha) sull’effettiva importanza del contesto nella definizione della personalità degli individui (lui cerca di portare quest’influenza vicino allo zero, ma ammette che qualcosa gli sfugge)
Totalmente perso, poi, Pinker lo è quando passa a parlare (in un penultimo capitolo che poteva tagliare, accidenti, è stato come mangiare per ultimo un boccone andato a male) delle arti, in una specie di polemica contro il  post-moderno anche comprensibile nei contenuti ma condotta come farebbe una mia zia molto conservatrice e tradizionalista se solo mia zia insegnasse al MIT e fosse impallinata con la teoria darwiniana.

Nell’insieme però il libro è molto bello, dice una quantità di cose vere e/o interessanti sugli esseri umani e da una chiave interpretativa molto forte sul modo in cui sono fatti e pensano, si comportano, interagiscono fra loro e prendono decisioni collettive (ovvero: fanno politica). Anche se non tutto torna mi è sembrato il primo libro di filosofia vero che ho letto da anni a questa parte: perché si fa delle domande su come siamo fatti e come percepiamo/interagiamo col mondo e perché parte da questa visione per cercare di mettere in discussione i discorsi attuali sulla politica e cercare di immaginarne di nuovi. Si tratta di un’interpretazione che ha in sè un forte rischio di conservatorismo e immobilismo (in fondo una natura umana immutabile sarebbe facile da prendere come argomento a favore della difesa dello status quo), ma con cui bisogna fare i conti non solo perché poggia su due teorie fortissime e praticamente indiscutibili  (o una e mezza, se siete scettici o teo-con: ovvero l’evoluzione e la selezione naturale), ma anche perché in molti aspetti è più convincente e meno consolante  delle altre disponibili.

* E’ più o meno lo stesso tipo di tara, quella che va fatta alle argomentazioni e preoccupazioni di Pinker, che va fatta ogni volta che si prende un libro di Steiner o di Bloom in mano: da loro sia il decostruzionismo che i cultural studies sono arrivati a livelli di demenza difficilmente prevedibili, e per chi ci deve combattere nelle università è molto complicato non buttare via il bambino con l’acqua sporca (scusate: non mi andava di cercare un’espressione meno frusta).

1 commento:

Anonimo ha detto...

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