lunedì 21 febbraio 2011

I film che passano a notte fonda e che finisci per vederli di notte lo stesso pure se li hai registrati

(sempre a cura dell'ottimo Stefano)


“sempre denaro, maledetto denaro!”: UNA LETTERA ALL’ALBA – Italia 1948, 91’ bianco e nero. Regia di Giorgio Bianchi. È un film elegante, la cocaina per esempio viene sempre detta “quella roba” e non si vede mai, immagino vista l’epoca. Gli spacciatori sono una signora molto ricca dall’accento strano che vive in un bell’appartamento e un ragazzo dall’aspetto curato cui la madre (che muore all’inizio del film ) non ha mai detto chi fosse suo padre. Il ragazzo finirà accusato di omicidio e il padre (senza però rivelarsi) riuscirà ad aiutarlo e a rimetterlo sulla retta via. Belli e pesanti i commenti musicali, quando le inquadrature sono fisse partono gli archi tutti assieme e ogni volta sembra la scena madre conclusiva del film, solo che si continua e ci vuole pazienza a vederlo tutto. Voto: in effetti potevo anche non vederlo.




“soldi, far soldi senza lavorare, son tutti soldi maledetti!”: SENZA PIETÀ – Italia 1948, 94’ bianco e nero. Regia di Alberto Lattuada. Una giovane donna perde il proprio figlio e arriva in una Livorno povera, dominata dai militari Americani e dai trafficanti locali. Sarà introdotta alla prostituzione e cercherà di fuggire assieme al suo nuovo fratello Jerry, un soldato afroamericano così buono da capire di non essere amato e non ostante ciò pronto a tutto per lei. È un film che risente del tempo passato eppure ha dei momenti memorabili: una scena al porto dove Angela, la protagonista ( Carla Del Poggio, struggente nella sua desolazione ) si getta nel mare perché ha capito a cosa andrà incontro; il tentativo di fuga dal carcere militare di Jerry ( c’era finito incastrato dai contrabbandieri ), con il faro del carcere a squarciare la notte e i colpi di mitra ad inseguire il fuggitivo oltre il filo spinato. Finirà male quasi per tutti, l’unica a salvarsi sarà l’amica di Angela, Marcella ( Giulietta Masina ), che per un milione di lire salperà su una barca a remi per imbarcarsi clandestinamente verso l’America. Voto: siamo dalle parti di Europa ’51.

“medicina è amore”: IO ACCUSO – Germania 1941, 120’ bianco e nero. Regia di Wolfgang Liebeneiner. La storia di una donna, Hanna, che improvvisamente si ammala di sclerosi multipla e della corsa contro la malattia di suo marito, Thomas, un ricercatore che proverà fino alla fine a trovare prima l’agente patogeno e poi la cura. Inutilmente. Fino ad assecondare il volere della moglie di morire prima che la malattia diventi troppo penosa per entrambi. La parte centrale del film è densa e commovente, ci sono le fasi della ricerca in laboratorio e i tormenti di un uomo che sa che sta lasciando da sola la propria moglie in un momento così difficile e però non può fare altrimenti. A tenerle compagnia sarà il loro amico d’infanzia e di studi, innamorato anch’egli di Hanna, che finirà prima per accusare Thomas di omicidio e poi per rivedere le proprie convinzioni. La scena della morte di Hanna è notevole, con il loro amico che suona un brano al pianoforte e i due amanti che si tengono vicini e si dicono le ultime parole, rese più leggere dalla morfina. Poi comincia la parte del processo, e il film perde di forza scenica. Verrà appurato che è stata la moglie a chiedere di morire, ma per la legge è ugualmente inammissibile un atto del genere seppure moralmente perdonabile. Il film diventa una sorta di discussione politica sul sistema legislativo e si conclude con il marito che rinuncia ad una scappatoia legale (la perizia non riesce a stabilire se la donna sia morta per la morfina o per la sclerosi multipla) per affermare la giustezza del proprio atto, senza che si sappia se verrà condannato o meno. Voto: interessante come documento.

9 commenti:

cassandra ha detto...

Forse sei la persona giusta per rispondere a questa domanda: mi spieghi l'uso del bianco/nero in Heimat?

frogproduction inc. ha detto...

cassandra, la rubrica la scrive Stefano, e io Heimat non l'ho mai visto (sì, lo ammetto): gli giro la domanda!

cassandra ha detto...

Ma infatti, volevo chiederlo a lui. A te forse l'avevo già chiesto, l'ho chiesto un po' a tutti: tutto pur di non dovermi andare a cercare la risposta su qualche saggio di cinecose.

( Stefano, sia chiaro che anche una risposta inventata, purché plausibile e accattivante, sarà ben accetta. Bado alla sostanza estetica, io.)

stefano ha detto...

cassandra, Heimat non l'ho visto, però per stasera ho tutto il tempo di inventarmi qualcosa.

stefano ha detto...

posto due stralci da un saggio di paolo jedlowski, il racconto come dimora, heimat e le memorie d'europa. del bianco e nero non parla. l'ho trovato in biblioteca, e ci sono anche tutti i dvd della serie. così proverò a vederli.


Incapace di raccontare Paul Simon è il personaggio di un racconto di altri. Al suo silenzio supplisce la voce di un altro narratore. È il film stesso a supplirlo, raccontando la storia di chi non sa raccontare la storia. Alla comunità narrativa che paul simon non trova si sostituisce la comunità narrativa mediata che il film mette in gioco. Mettendo in scena il proprio narratore heimat chiama in causa dichiaratamente i suoi spettatori suggerendo che si collochino nella posizione di chi ascolta al voce di un uomo che narra. La cesura fra paul e i suoi destinatari si ricompone così entro un nuovo modello di relazione la comunità narrativa evocata nel film dalla voce di glasisch prelude alla comunità narrativa mediata che il film rende possibile. Quest’ultima si sostituisce a quella che nella storia narrata era la comunità spezzata attorno a paul simon. È qui che l’esperienza di paul ha modo di essere elaborata. Non esattamente quella di paul, ovviamente: questi non è che un personaggio di fiction: ma quella degli spettatori che nella sua storia e nelle sue difficoltà si riconoscono. Ciò che heimat racconta è una storia esemplare del novecento. Lo spettatore è invitato a mettere a confronto le sue rappresentazioni a riguardo. La fruizione del film dialoga con ciò che lo spettatore ha vissuto, e mette in moto processi di elaborazione della sua propria esperienza. Facendo segno alla realtà che sta oltre allo schermo, simulandola in modo esemplare mediante una fiction, ce la fa vedere in un certo senso come se fosse la prima volta, permette di riconoscerla. Ne mostra ciò che, vivendo, ci era sfuggito, o che eravamo ormai capaci di vedere solo in modi stereotipati.


Alla lettera si tratta del rapporto dei tedeschi con la propria patria e con la propria storia, si tratta di persone che restano a casa e di altre che la abbandonano. Si tratta anche di criticare le connotazioni ideologiche della nozione di heimat e di sostituire loro un rapporto più consapevole. Ma il senso di aver perso le proprie radici i una situazione d’origine che sempre di nuovo ricerchiamo e che sempre ci sfugge, e il senso di questa stessa ricerca, sono ciò che costituisce il nucleo della problematica esistenziale dell’esperienza. La ricerca della heimat è metafora della ricerca della capacità di portare a compimento la nostra esperienza. E appartiene a questa problematica la soluzione che Reitz ( il regista ) ci consegna: un racconto. Una soluzione che induce a dire che forse, alla fine dei conti, la dimora di cui andiamo in cerca è costituita dalla narrativa. Raccontare è fare del mondo un casa.

cassandra ha detto...

Grazie, Stefano!

Io l'ho visto consigliata da un'amica tedesca e mi è piaciuto: se inizi la visione danne notizia sul blog.

(P.S. Daniele, ci vorrebbe un'altra rubrica di pubblica utilità qui sul blog: Chiedi al ranocchio! Risposte lucide a domande che non fareste da sobri).

daniele ha detto...

vuoi occupartene tu? :)

cassandra ha detto...

Solo delle domande :P

frogproduction inc. ha detto...

anche solo delle domande va bene! (a proposito, nessuna amico/a con problemi di cuore per Carolivia?