mercoledì 22 dicembre 2010

Alberto Arbasino "In questo stato"

Alberto Arbasino
"In questo stato"
Garzanti, 11 euro


(no, non è una recensione, non è poi una gran novità letteraria, questa qua)
Arbasino scrive, nei due mesi del rapimento Moro (dal 16 marzo al 9 maggio 1978), una specie di diario delle sue reazioni all'Italia, più che degli eventi in corso, ed è tutto (come e più che nei libri soliti di Arbasino) un aforisma, un elenco, un'invettiva e un "signora mia come si stava meglio un tempo" (cosa in cui Arbasino, pur prendendola in giro, ha preso dagli anni settanta in poi a cadere sempre più spesso - identificando l'età dell'oro con il gruppo '63, evidentemente). E' quindi - se si sopporta Arbasino - estremamente divertente, occasionalmente meraviglioso (le invettive contro i giovani e l'asservimento alle mode sono bellissime), solo raramente insopportabile (quando il "signora mia" di cui sopra diventa troppo forte).
La parte migliore del libro non è sicuramente nelle osservazioni che fa Arbasino (per quello bisogna leggere "Un paese senza", che è la versione "ragionata" di questo), quanto negli innumerevoli paragrafi in cui riporta il modo in cui si esprime la "ggente" intorno a lui, dai giovani ai poliziotti, dai brigatisti ai politici, a Moro stesso (che è ferocemente preso per il culo, va detto, soprattutto per il suo continuo riferirsi alla famiglia - e col culto della famiglia in Italia Arbasino è particolarmente feroce).

A me, che l'ho letto mentre leggevo Zizek (sì, sono terribilmente indietro con le recensioni), hanno colpito particolarmente due cose relative ai brigatisti e alla loro voglia/idea di rivoluzione. La prima è la mancanza di "curiosità" (vale a dire: di intelligenza) dimostrata dai brigatisti durante il sequestro

"Ma che brigate senza curiosità: politica, storica, civile. non solo in due mesi, non solo in due settimane, ma in due giorni, due ore: sentiamo la vera storia di Piazza Fontana, vogliamo la verità sugli attentati e sugli scandali, veniamo alla Lockheed senza farla tanto lunga. Ma finché da unna parte e , e dall'altra e , quale potrà poi essere il giudizio della Storia tra qualche anno o fra qualche mese? Ci sono delle sciagure di fabbrica o di autostrada o di alta montagna che risultano più memorabili" (p. 167)

La seconda (per me particolarmente gradita perché contemporanea ai discorsi "a buffo" di Zizek sull'evento rivoluzionario) è intorno alla mancanza di realismo dei proclami (più che dei programmi) rivoluzionari dell'epoca, che continua a credere in un avvento messianico della rivoluzione e nel mondo post-rivoluzione come un eden in cui le cose si producono e van bene per magia (più che cattolici, in pratica, dei testimoni di Geova) e sui crede ancora nel ruolo egemonico della fabbrica e dell'operaio (cito tutto il passaggio, che è fenomenale)

"Ma tant'è, privo di antropologia cattolica e controriformistica (niente Seicento, tutto Settecento) e tutto curiosità materialistiche per il futuro pratico della gente - spaghetti e risotti per i vivi, non tanto lapidi e cippi per i defunti (cioè Porta e Gadda contro Monti e Foscolo nonche San Carlo Borromeo) - continua a cercar risposte a domande nettemante realpolitiche, le solite, primarie, primordiali, tipo: una volta distrutto questo sistema di merda, chi poi coltiva il grano per fare il pane? (se lo chiederebbe anche Renzo Tramaglino). E come si importa la carne, se non siamo capaci di allevare le vacche, e in tutti questi anni di carestia non abbiamo neanche provato a riprendere gli allevamenti? Si costruiscono case pubbliche o private, ammucchiate o distanziate, verticali oppure orizzontali? Che cosa si insegna ai bambini oltre all'animazione? La superficie dell'Italia è sufficiente a contenere tutte le scrivanie di tutti gli aspiranti a un posto burocratico? Chi paga le Alfa Romeo al prezzo di costo reale? Chi compra e mangia i panettoni Motta e le colombe Alemagna e i baci Perugina? E la fabbrica, questa istituzione centrale ed egemonica, è un fatto positivo o un fatto infernale? E cambia forse di segno quando invece di produrre ricchezza per la collettività, la assorbe e la distrugge? Ecco riapparire allora, il tormentone: se la vera egemonia spetta a una classe operaia che vive di sovvenzioni perché le sue fabbriche producono soprattutto passivi, come si fa a esercitare una egemonia campando tutto sommato di elemosine statali come i pensionati e gli enti inutili?" (pagina 142)

(In "Un paese senza" Arbasino va oltre: si chiede perché tenere in piedi la fiat e alitalia - nel 1981 - quando con i soldi che servono a farlo si potrebbero tranquillamente stipendiare tutti i suoi operai ... e avercene di resto per fare mille altre cose ...)

1 commento:

insorgere ha detto...

un paese senza era molto bello. q