sabato 4 giugno 2011

Cosa racconteremo dei film che (non) vedremo di questi cazzo di anni zero

(La rubrica dei film di STEFANO)


Premessa: dovrebbero essere i capolavori o comunque i film che penso valga la pena vedere, capaci di impressionare per la forza o la grandezza, oppure di smuovere, di far sussultare l’animo. Film degli anni ’00 con alcune aggiunte dal passato. Questi due mostrano uomini che un tempo buttavano giù alberi e adesso palazzi, con la testa rivolta alle loro case, alle mogli, al futuro per chi ce la fa.




STILL LIFE – CINA 2006, 111’. Regia di Jia Zhang Ke.
Come recuperare il proprio spazio e riadattare lo sguardo in un mondo che sta per scomparire. Un uomo è in cerca della propria moglie andata via ormai da 16 anni, insieme con la loro figlia. Arriva in una provincia che diventerà una diga per produrre energia idroelettrica, un progetto immenso che ha comportato l’evacuazione di oltre un milione di persone. Si ritrova così in un paesaggio per buona parte sommerso dall’acqua, senza soldi o quasi e senza sapere dove trovare la moglie che ormai vive da un’altra parte. L’uomo comincia a lavorare assieme ad una squadra di demolitori di palazzi, riuscendo poi in seguito ad incontrare la donna che cercava. Un racconto lentissimo e straordinario, una continua carrellata di volti e scorci di paesaggi spettrali, suoni della civiltà avanzata che disturbano la quiete della rovina. Lo sguardo nascosto e dettagliato di un regista da scoprire e seguire ( se potete guardatevi Platform e The world ) che descrive come fosse un documentario una dimensione sospesa  nella quale vivono alcuni lavoratori a cui si aggiunge il protagonista. Nel finale del film si vedono mangiare assieme e fumare, brindare alla partenza dell’uomo che dice di tornarsene a lavorare dove stava prima, nelle miniere di carbone. Gli altri sono tristi, poi uno chiede quanto si guadagna. Almeno il quadruplo. Allora gli altri senza pensarci un attimo brindano ancora e dicono che lo seguiranno, però lui li avverte che è anche molto più pericoloso, la mattina si scende e non si può essere sicuri di tornare. Non fa niente, partiranno lo stesso, zaino in spalla e via andare, lasciandosi alle spalle un equilibrista temerario sopra un filo appeso agli ultimi palazzi rimasti in piedi, esistenze precarie che proseguono il cammino.



IL TAGLIO DEL BOSCO – ITA 1963, 56’. Regia di Vittorio Cottafavi
Gian Maria Volonté è Guglielmo, vedovo da alcuni mesi, che prende con sé una squadra di boscaioli per andare a tagliar legna nei boschi della Toscana. Di giorno si taglia la legna, poi si va a lavare i panni al fiume, ci si accorge di quanto faccia male l’acqua alle mani e si pensa alle proprie mogli. A sera, nel rifugio si prepara la polenta, si gioca a carte e si fuma; c’è anche chi rammenda e chi racconta delle storie, alcune ci vogliono tre sere per finirle. C’è Fiore, scorbutico che mugugna per tutto, c’è il giovanotto che aspetta di partire militare, magari al nord dove le donne sono più libere; chi sogna di andare in California. Passato l’Inverno e la Primavera gli altri tornano al paese, mentre Guglielmo aspetta il carbonaio per finire il lavoro. Incontra un uomo davvero solo, anche lui ha perso la moglie, e anche una figlia, l’altra invece lavora lontano, e così adesso non gli resta davvero più nessuno, il lavoro lo porta sei mesi per i boschi, ma è un lavoro che svolge senza aiuti e quando torna a casa è lo stesso. Guglielmo può così pensare che lui almeno ha una sorella che lo aiuta a crescere le due figlie che lo aspettano ormai da cinque mesi. Guglielmo torna a casa e passando ancora una volta sulla tomba di sua moglie chiede che gli doni un po’ di rassegnazione.
È un film stupendo, mostra la vita di un tempo, le fatiche e i malanni, la povertà e la necessità schiacciante del lavoro. È incentrato sugli uomini, sui loro gesti e le loro voci, anche i loro canti. C’è tutta la buona umanità possibile, anche nella sofferenza, e si capisce bene che le ferite interiori sono il legame che abbiamo con le generazioni passate.

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