Non distinguere la luce dal buio mentre si aspettano notizie
peggiori che il morire stesso.
Di fianco giacciono scatole di cioccolatini scaduti affiorano
formiche da ogni dove
non respiro più come prima e mi annoio. Cosa provo a parte
un leggero sconforto dovuto alle previsioni del tempo e alla lettura del
giornale di ieri, chi osservo, chi sono questi tizi che camminano nella mia
casa in cerca di oggetti che non possiedo più da tempo?
Tu mi dicevi sempre che non è bello andarsene dal cinema
senza vedere tutti i titoli di coda, ma io sapevo risponderti con una timida alzata
di spalle che poi avrei comprato il dvd.
La spesa l’ho fatta, il meccanico è stato scortese e mi ha
sbirciato insistentemente la scollatura, mentre io fissavo le sue mani sporche
e il nero fra le unghie e il viscido negli occhi, desiderosa che morisse e
cadesse così ai miei piedi.
Ancora mi manchi?
In questo sono simile ai pesci, può sembrare che non abbia
niente da dire, che mi accontenti di aprire la bocca per prendere fiato, che mi
rassegni al ruolo, a qualsiasi ruolo che mi sia stato assegnato, e basta, che
io finisca lì, che esista solo su chiamata, solo se servo a qualcuno, a
qualcosa.
Alla famiglia che senza di me, all’educazione dei figli,
adesso anche nei parlamenti e nelle giunte comunali, nelle facoltà
scientifiche, servo sempre di più. Servo.
Di nuovo avverto la sua ombra, le sue mani bramose di carne
palpabile, vorrebbe strappare ogni tessuto sintetico che incontra, ogni fibra
naturale che l’ostacola, sento il suo respiro affannato, sento che sta per cedere
alla bestialità tramandata da millenni e anche di più, sento che ogni mio grido
sarà malinteso, sarà linfa vitale per l’animale.
Anche ieri hai impiegato mezz’ora per accordare la tua
chitarra, hai sempre paura di rompere l’ultima corda, la più sottile, sei stato
fermo con il pollice e l’indice della mano sinistra a fissare l’accordatore
elettrico che si è fatto buio e ho dovuto accenderti la luce, ti ho chiamato
due volte e vedevo che tremavi un poco. Poi non volevi mangiare.
Non ho sonno, eppure dovrei. Domani mi aspetta una
giornataccia; se passo la mano nell’altra metà del letto sento tutta l’assenza
del mondo, sento una parte del mio cuore uscire di nuovo senza salutare.
C’è ancora spazio per la polvere nella mia testa, urla mia
madre che sta seduta di fronte alla finestra a guardare il mare. Siamo al quinto
piano. Nel palazzo ci odiano tutti. La chitarra di mio figlio e le urla di mia
madre. Me stessa. Quando scendo e salgo le scale le occhiate mi trafiggono.
Sento le buste della spesa strapparsi, le bottiglie d’olio andare in frantumi e
la mia disperazione nuda di fronte alle risate sguaiate e sprezzanti
sommergermi fino a farmi soffocare.
Ancora 4 in
matematica. Più una specie di zuffa per colpa di una offesa. Una macchiolina di
sangue altrui sui jeans e una convocazione dalla preside dell’istituto tecnico industriale.
E tu correvi con il
sole alle spalle e ridevi con il naso all’insù. Eri felice e si vedeva.
La dimensione del lutto è tetra e commovente, però anche
liberatoria, soprattutto nei funerali sotto la pioggia. Quando penso a qualcuno
che se ne è appena andato, penso che il mondo sarà per un po’ più leggero, e
anche il suo corpo, libero dal peso dell’anima, libero dagli sguardi degli
altri, dai loro pensieri, onde che colpiscono, colpiscono sempre, micro punture
insistenti fino a che la misura è colma.
Non mi crede più. Mio figlio da quando prende brutti voti a
scuola non mi crede più. Dice che gli ho sempre detto che era bravo e
intelligente e adesso dice che lo prendono in giro. Ora è meglio aspettare e
sperare in un buon voto, mi va bene anche se in religione o educazione fisica.
Ma ce l’avrà una fidanzatina?
Cos’è che mi manca allora, che mi aspetto ancora dalla vita,
dalle vite, da quelle degli altri, da questa città, da questa casa con famiglie
e luci accese a fingere il focolare domestico, cosa dovrei aspettarmi prima di
invecchiare? Dovrei forse rimettermi in cerca di un uomo, un altro? Adottare
una sorellina per allargare l’allegra compagnia, magari un cucciolo che costa
pure meno, potrei uccidere la vecchia sorda che urla invece, e dare una svolta
netta a questa storia, invece che lamentarmi; posso? Non ho vizi, non
bevo e non mi drogo, mi lavo, fatico, mando avanti una casa e una famiglia.
Prenderai freddo così, còpriti - mettiti la felpa grigia
quella con il collo alto... - sennò mettiti la sciarpa - a che ora torni? È troppo
tardi, si cena alle sette e mezzo lo sai - come sarebbe che mangi da solo? –
Non se ne parla neanche.
Un vecchio assiste al suo riflesso di fronte ad una vetrina
di un negozio di dolciumi, scoprendo nuovi solchi sulla pelle, nuove rughe,
nuovi segni di un passato, mentre un tuono all’improvviso gli ricorda che è il
momento, la vita prova a distrarlo per un’ ultima volta. No, queste sono
scemenze.
Alle sue spalle rapinatori in maschera fuggono sparando
colpi in aria, lasciandosi alle spalle i corpi sgraziati e macchiati dalla
pioggia e dal sangue di due gemelline che ancora stringono i lecca-lecca in
mano, le sirene della polizia strillano ma non per loro, è un giorno da cani e
c’è molto da fare.
La benzina io la metto alla sera, quando torno dal lavoro,
la metto da sola anche se d’inverno fa freddo e mi sporco le mani. Però l’odore
che da bambina non facevo altro che aspettare ogni volta che uscivamo in
macchina non mi stupisce più, non lo avverto neanche. Guardo lontano, il
quartiere dove abito, si vede il mio palazzo, le luci accese a quasi ogni
piano. Non so se è come dicono, che il cemento che avanza ha distrutto il paesaggio
di un tempo, ma certo lo sguardo è sempre in prigione, senza possibilità di
evadere se non volgendosi al cielo, non riesco più a pensare al futuro, ai miei
spazi, sono finite le possibilità di immaginarsi i cambiamenti, vedo muri che
stringono il cerchio, che tolgono il respiro. Non c’è spazio neanche per
camminare, si cammina in macchina, a passo d’uomo con tubi di scarico come
valvole di sfogo. La radio è meravigliosa, se non ci fosse la radio nel
traffico ci sarebbero continue stragi, la gente comincerebbe a girare armata in
attesa di una freccia non messa, di una macchina che si spegne, di un clacson
stridulo e impertinente. Eppure arrivo tutti i giorni puntuale al lavoro, nel
mio studio dai colori tenui e accoglienti con la musica da camera diffusa a
basso volume, dove trascorro la vita ad ascoltare gli altri mentre penso a cosa
aggiungere prima che il tempo sia scaduto e tocchi al prossimo.
M. prima di cominciare a parlare respira con ritmi
irregolari e sembra prendere la rincorsa, poi è un fiume in piena di parole, fino
a che si ferma di colpo, prende una grossa boccata d’aria che sembra che
ricominci o che voglia chiudere con qualcosa di grosso e invece si spegne,
guarda basso e produce un piccolo sospiro.
Capisce! La mia cacca,
la mia cacca stava tutta nei pantaloni, era fredda, fredda! Era cacca morta.
Non puzzava, però era fredda. E allora Napoleone doveva sentirsi solo in
quell’isola lontana, così solo, e intanto la cacca mi faceva venire i brividi e
la maestra mi guardava perplessa, mi diceva continua che stai andando bene, ma
io mi sentivo come Napoleone, solo e in imbarazzo, ce la siamo fatta sotto
tutti e due, poi ho chiesto di andare in bagno, la maestra mi ha risposto prima
finisci, io ho detto non posso, poi ho detto sono Napoleone esigo di essere
lasciato libero di andare in bagno, e tutti a ridere i miei compagni, la
maestra si è spaventata perché io l’ho detto con una voce strana, una vocina
come un diavoletto, stridula mi ha detto che si dice la maestra, che le ha
fatto venire i brividi, perché anche i miei occhi erano diversi quando gliel’ho
detto. E allora la maestra non riusciva a dire nulla e tremava e io che non ce
la facevo più ho cominciato a mettermi le mani nelle mutande e a tirare fuori
dei pezzettini di cacca, che un po’ era liquida e un po’ era solida, ma non
puzzava, e allora i compagni tutti a ridere come matti, qualcuno strillava,
qualcuno c’aveva proprio lo schifo dipinto in faccia, però io non riuscivo a
togliermi tutta la cacca di dosso e allora mi sono abbassato i pantaloni e pure
le mutande per fare meglio e sono rimasto con il pisello di fuori che era
diventato tutto marrone e c’aveva la pelle raggrinzita perché poi mi hanno
detto che quando i maschi sentono il freddo gli fa così il coso loro.
Prendo appunti, scarabocchi, farfalline e cuoricini. M. fa
un lavoro molto semplice: è impiegato alle poste italiane, accoglie chi arriva
all’ingresso e fornisce le prime indicazioni, preme i pulsanti della
macchinetta che stampa i numeri per le file, tre pulsanti per le diverse
operazioni.
Vive in periferia, una casetta con poche stanze ereditata
dai suoi genitori; vive con un gatto, un gatto bianco e grasso, nella foto che
mi fece vedere si capiva chiaramente; ha 41 anni. È brutto, non ci sono molte
parole per farlo capire ed è anche spiacevole doverlo dire, perché sembra
avercele tutte; è solo e brutto, ha una collezione di giornate tutte uguali
divise per luoghi in cui ha trascorso la sua esistenza, la casa quando erano
vivi i suoi genitori, la scuola elementare, la scuola media, il lavoro alle
poste, la sua casa adesso. Per campare non gli manca nulla, può arrivare dritto
alla morte senza intoppi, e più lo ascolto più mi sembra che non dovrebbe
essere qui a raccontarmi le sue vicende, a farsi leggere i suoi sentimenti, a
farsi cavare fuori da sé quello che tiene nascosto, quello che sarebbe stato se
non fosse nato e cresciuto in mezzo alla sfortuna.
Ancora il vecchio dell’altro giorno. Ha un foglietto in
mano. È una multa. Mi chiede perché gliel’abbiano fatta. Sulle prime non lo
capisco nemmeno io. Poi capisco che ha parcheggiato troppo vicino alla
carreggiata. Ci parcheggiano tutti. È toccata a lui stavolta. Gli chiedo se
ricorda della rapina, delle bambine uccise. Niente, non capisce, pensa solo
alla multa, a come fare per il reclamo. Lo accompagno al bar. Gli chiedo se ha
i soldi per pagare la multa. Dice di sì, per fortuna ha la pensione. Ne ha due.
Gli arrivano ancora i soldi dalla Francia, in cui visse per 10 anni appena dopo
la fine della seconda guerra mondiale. È sposato, ha quattro figli, tre sono
donne.
Eccoli qua, gli uomini che incontro.
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