Diaz –
don’t clean up this blood. 2012 ITA e pezzi d’Europa per i permessi più
agevoli da ottenere, 127’.
Regia di Daniele Vicari. Fra i vari pensieri uno è stato quello che “esce Diaz,
me lo vado a vedere al cinema che ho proprio voglia, e poi ci faccio una bella
recensione”. Un altro è stato, in corso di visione, “certo che avere interesse
per un evento a cui non ho partecipato, di cui ho visto un sacco di immagini,
terribili e deprimenti, al punto di andare al cinema per sorbirmi lo strazio di
quello che non si è visto, così poi ne posso pure parlare, ma insomma tutto ciò
a qual senso?”. Fa niente, ognuno c’ha le sue. Il film attanaglia pian piano,
poi si può piangere a dirotto o trattenersi, ma c’entra pure la tensione, tra
squarci metropolitani, ripartenze à la Elephant ( cioè far vedere la stessa scena con
altri punti di vista, ovvero di altri personaggi ), crescendo Hosteliani (
Hostel è un film dell’orrore in cui dei ragazzi vengono torturati, e la
macchina da presa scorre lungo le celle in cui avvengono le torture ) e scena
finale da liberi tutti. Si potrebbe dire che un altro pregio è che è così forte
che nessuno ha voglia del dibattito dopo. Volendo dargli un’inquadrata
stilistica o narrativa, fra i pareri vari raccolti in giro c’è chi sostiene che
sia troppo incentrato su un fatto particolare da sembrare assurdo, ma in realtà
chi lo è andato a vedere probabilmente una certa idea ce l’ha e chi no avrà
tutta la voglia di provare ad allargare lo sguardo. C’è una bottiglia vuota che
ritorna spesso, al rallentatore, volteggia, lanciata da qualcuno, ritorna come
un falso pretesto a tenere i fili del racconto. A me è parso un buon film che
aveva un obiettivo ben preciso e l’ha raggiunto, attraverso le immagini
anzitutto. È vero che si concentra su un episodio all’interno di tre giornate
senza dare conto del perché delle giornate, ma lo sguardo è chiaramente
improntato per una visione ampia, per cui il “fatto” è espresso dalla furia
cieca ma è chiaramente originato dalla furia lucida e criminale dei piani alti.
Lo sconsiglio ovviamente a chi non sopporta la violenza e le umiliazioni sullo
schermo. Non è che io ci goda comunque. La musica è di Teho Teardo, e
porcaccia, a parte che l’ho riconosciuto dalla prima nota, è bravo, davvero.
Crea un impasto drammatico attraverso il registro grave degli archi, con la
chitarra mi pare classica a impreziosire il tutto. Scuote e lascia vibrare le
corde come si deve, fino all’ultima inquadratura fra i monti, con innegabili e
piacevoli echi Morriconiani, che possono fare da tramite per quel cinema
impegnato di un tempo e questo tentativo odierno, con rinnovato stile.
Black Block. ITA 2011, 76’. Regia di Carlo A. Bachschmidt
Questo documentario offre le testimonianze di alcuni
presenti alla Diaz la famosa notte e alla caserma di Bolzaneto poi. È stato
trasmesso da rai tre qualche giorno fa. È un utile controcanto, sussurrato e
dolente, con un pianoforte sullo sfondo che ricorda quello di Trent Reznor in
The social network. Le parole di persone provenienti da varie parti d’Europa
ritrovatesi a condividere un trauma, ad elaborarlo, per poter magari essere
d’aiuto ad altre persone nella loro situazione. Interviste effettuate
all’interno di un edificio che sembra abbandonato, con alcuni oggetti che
suggeriscono gli eventi, un po’ nascosti, quasi non ci si fa caso.
Poi: una buona recensione con vari spunti per altri documenti filmici, una pagina per un chiarimento linguistico non richiesto e un saggio interessante. Con alcuni spunti comici tra l’altro, come i regolamenti
per le forze dell’ordine in libera uscita. Tempo fa era sconsigliato fare cose
come fumare in pubblico, e ci sta; trasportare pacchi voluminosi, mah; bere
dalle fontanelle. Poi, alle feste, chiedere di ballare alle donne più
trascurate. Applausi.
Bonus track ( visti dal vivo, che vale doppio ).
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