“Una studentessa mi sembrava un pochino illogica, e quindi
cercai di farla ragionare. <<Senta >>, le dissi, <<supponiamo
che lei discuta con un islamico. Questo tizio le dice che quanto sta scritto
nel Corano è tutto vero perché è stato dettato direttamente da Dio. Lei allora
vuole sapere da lui come fa a esserne così certo. E questi le risponde: “c’è
scritto nel Corano!”. Ebbene>> chiesi alla studentessa, <<a suo
parere, cosa c’è che non torna in questo ragionamento?>>. Mi guardò
stupita. Taceva. Io mi spiegai con più garbo, ma non capiva. Alla fine mi
disse: <<io credo che bisogna rispettare tutte le fedi>>. Fine del
discorso.”
“Supponi che, come è ben possibile che accadesse, nel 1962 o
1963 io facessi una conferenza sulla psichiatria. Fra le altre cose, mi
capitava allora di spiegare come, per un qualsiasi individuo sofferente e in
difficoltà, l’essere etichettato come malato di mente potesse in certi casi
contribuire a un’interiorizzazione dell’etichetta. Ossia, inconsapevolmente,
insensibilmente, questa persona poteva essere sospinta ad assumere alcuni dei
comportamenti socialmente previsti per il ruolo “malato di mente”. Sempre ci
tenevo però a precisare che questo fenomeno, già studiato da Lemert e da Becker
non spiega affatto né l’inizio né la natura del disturbo mentale, anche se
talora può influenzarne, in qualche misura, il decorso, o il decorso apparente.
Ora, ecco il punto. Nel 1962 potevano venire ad ascoltarmi sì e no trenta
persone; parlando con loro avevo l’impressione che la maggior parte di loro
avesse compreso senza equivoci quello che volevo dire. Anni dopo, mi venivano
ad ascoltare non trenta, ma trecento persone. la metà di loro se ne tornava a
casa convinta che io avessi detto che la malattia mentale non esiste, perché io
avevo detto che se un soggetto è trattato da pazzo egli si adegua all’etichetta
solo per questo motivo e non perché affetto da una malattia mentale. Ed eccomi
sistemato, per loro ero un antipsichiatra.”
Sono due passaggi del libro La razionalità negata,
psichiatria e antipsichiatria in Italia, un dialogo fra Gilberto Corbellini e
Giovanni Jervis, il primo storico della medicina, l’altro ( morto nel 2009 )
medico psichiatra. Si riferiscono a uno dei temi nel libro, la situazione
culturale italiana, partendo dalle lotte e dai movimenti dei ’60 e ’70, nei
quali si intrecciavano le teorie antipsichiatriche dell’epoca, trattando in
particolare la storia di Basaglia, della legge 180, dei suoi effetti e della
sua divulgazione. L’aspetto che più mi interessa è quello del come si formano
le nostre opinioni, il nostro senso critico, perché ad esempio nel libro c’è
una netta critica alla teoria foucaultiana, che idealizza la malattia mentale,
e provando a leggere La storia della follia di Foucault mi accorgo che ho delle riserve già in partenza, perché non
mi piacciono il lirismo, la poesia e l’astrattezza poste come linguaggio
fondamentale per parlare di certe cose. Ma questo fa parte del mio bagaglio
critico o è solo una coincidenza?; se avessi letto prima Foucault e altri testi, e
poi questo di Corbellini e Jervis, avrei considerato quest’ultimi come dei meri
riduzionisti, degli aridi naturalisti? E soprattutto, sono in grado di
affrontare certe letture e di comprenderle davvero? Non so, direi che c’entra
molto la poca o maggiore istruzione, anche se a conti fatti gli studiosi
prendono la loro via e si auto confermano le proprie teorie ( c’è anche un
termine per ciò, il BIAS ), altrimenti immagino che non produrrebbero nulla in
preda ai dubbi. Ci penserà poi la comunità degli studiosi a sistemare le cose.
L’altro aspetto interessante è non solo tutta la vicenda
attorno alla psichiatria, le varie teorie contrarie, molto diverse tra loro, ma
anche la prassi medica e l’evoluzione della medicina, il fatto triste e banale,
che non è solo per la crudeltà che certe pratiche venivano adottate molti anni
fa, ma è piuttosto l’impotenza di fronte a ciò che non si conosce. Per questo
linko due belle conferenze nelle quali è presente Corbellini a proposito di
storia e medicina:
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